Da «Liberazione», mercoledì 17 febbraio 2010, pp. 1 e 5
Ecco cosa c’è dietro via Padova
di Annamaria Rivera
A ottobre del 2002, nella campagna bresciana, un quartetto di maschi, tre adolescenti e un adulto, italiani doc, sequestrò e uccise a coltellate una quattordicenne, dopo aver cercato di violentarla.
Pescando a caso nella cronaca più recente, si trova che ad agosto del 2009, a Foggia, un diciannovenne italiano uccise a colpi di coltello un diciassettenne italiano. Volendo poi allargare la ricerca alle risse che hanno per protagonisti maschi di giovane età, troviamo, fra i casi numerosi, che ad aprile del 2009 a Roma, in via del Corso, uno dei due giovani fermati dalla polizia – di 16 e 17 anni e "di buona famiglia" (italiana, of course) – era armato di coltello a serramanico.
Sono solo tre esempi di una tendenza confermata da statistiche e studi criminologici: i crimini violenti, fino all’omicidio, compiuti da giovani, anche minori, sono in crescita, così come il fenomeno delle bande giovanili e dell’uso di armi da taglio. I tre fenomeni sono trasversali alle classi sociali, alle aree del Paese, alle origini nazionali.
Perché, allora, l’omicidio di via Padova, a Milano, è diventato un tale caso politico? Solo perché all’uccisione di un giovane per mano di un altro giovane sono seguiti disordini? Ma anche di questa tipologia troveremmo esempi numerosi, soprattutto nell’ambito dei disordini da stadio: risse, devastazioni, scontri con la polizia, che talvolta producono feriti e perfino morti.
Dunque, se non ci si lascia abbagliare dalla propaganda e ai fatti di via Padova si rivolge uno sguardo disincantato, non velato dal pregiudizio, si può concludere che il caso milanese appartiene anzitutto una categoria generale: l’aumento e, soprattutto, la banalizzazione della violenza tra le fasce giovanili della popolazione. Tutto il resto – il "degrado" urbano, la ghettizzazione, l’"integrazione", l’etnicizzazione dei conflitti – è importante ma secondario. Per meglio dire è il "testo" da inserire in quel contesto. Eppure non un solo giornalista, commentatore o politico – di destra, di sinistra o di centro – ha citato, in questo caso, il macrofenomeno del quale abbiamo detto. Va notato, inoltre, che davvero scarse sono state le espressioni di pietà per il ragazzo ucciso. L’occasione per rilanciare la retorica e la propaganda sicuritarie era troppo ghiotta. Quale migliore opportunità per competere fra destra e centrosinistra, intorno alla rispettiva capacità di garantire la sicurezza urbana, controllare il territorio, sbarazzarsi dei "clandestini"?
Ciò detto, il "testo" e le variabili che lo compongono non possono, certo, essere liquidati. Quello di via Padova è di sicuro un quartiere abbandonato a se stesso, per meglio dire governato dalla spontaneità del mercato e della speculazione, e dalla tendenza delle fasce marginalizzate della popolazione a concentrarsi dove i prezzi degli immobili sono più bassi. In tal senso è corretto parlare di "ghettizzazione" o meglio di "segregazione urbana". E questa, si sa, incrementa i fenomeni di devianza. A tal proposito, fa ridere davvero la preoccupazione di Calderoli sul caso milanese come «segnale di una possibile nuova banlieu (sic) francese" (trad. it.: «una possibile nuova periferia francese»). I disordini e le rivolte nei "quartieri sensibili" delle città francesi sono tutt’altra cosa.
La seconda variabile importante è la discriminazione e il razzismo. Per dirne una, un residente italiano intervistato dalla Repubblica ha confermato che, quando i cittadini stranieri del quartiere, vittime di furti, rapine e simili, ricorrono alle forze dell’ordine, non sono neppure ascoltati. Possiamo immaginare, allora, quale sia stato l’atteggiamento della polizia verso gli egiziani che chiedevano notizie della salma del giovane connazionale ucciso. Inoltre, la propaganda razzista martellante e i provvedimenti discriminatori che affliggono il Paese e la Lombardia, in particolare, che effetti pensate possano avere sulla convivenza fra diversi e sulla percezione di sé dei cittadini immigrati? Il sentimento di umiliazione è sempre pronto a trasformarsi in rancore e rabbia. E la rabbia spesso si sfoga contro chi è socialmente più vicino: ci si aggredisce – ci si uccide perfino – fra prossimi, fra adolescenti "di buona famiglia" come fra giovani di origine immigrata. La socializzazione del rancore e della rabbia è la chiave per comprendere il razzismo popolare. E il razzismo tout-court è un fenomeno a catena. Il razzismo dominante alimenta i razzismi dei dominati, "autoctoni" e non. Secondo uno dei sopravvissuti, i tre aggrediti sono stati apostrofati dagli aggressori "latinoamericani" (non ne conosciamo la nazionalità) come «musulmani di m.». A sua volta, uno degli egiziani che protestavano dopo il delitto ha parlato dei giovani latinos come di una «razza di m.». Il problema all’ordine del giorno, dunque, è come spezzare questa catena, dagli anelli più alti fino ai più bassi.
Dubitiamo che le forze politiche che ci governano e anche i più fra coloro che aspirano a governare ne abbiano l’intenzione e le capacità. Ne è un riflesso l’incompetenza perfino a nominare correttamente i cittadini di origine immigrata secondo la loro nazionalità (un vecchio vizio dell’Italietta). Dando prova d’inconsapevole grossolanità intrisa di razzismo, il meglio della stampa italiana ha scritto, spesso in uno stesso articolo, di etnia latinoamericana (parlerebbero di "etnia" nordamericana o europea?), di tre nordafricani, di cui un ivoriano, e via confondendo e mescolando. Gli "altri" non sono degni neppure d’essere individuati e nominati secondo il criterio neutro della nazionalità.
Non è solo una questione terminologica, è il riflesso dell’ignoranza generale che brilla come un sole d’agosto quando si rivolge a tutto ciò che concerne l’immigrazione e i cittadini immigrati. Date queste premesse, come osano, loro, parlare di "integrazione"? Sarebbe bene che, prima di tornare a pronunciare questa parola, frequentassero un corso accelerato di storia, geografia, lingua italiana ed educazione civica (non osiamo suggerire il francese, per Calderoli). E magari si potrebbe proporre d’istituire la residenza a punti: si perdono se non si supera un esame in quelle materie di base.