«Sono nato ad Orgosolo da genitori poveri, quarto dei sette figli di un boscaiolo e di una casalinga figlia di pastori». Così scrive Peppino Marotto nella breve autobiografia che introduce le sue «Cantones politicas sardas». Era l’inverno del 1925 quando l’arco della vita di Marotto si apriva; ieri mattina, poco prima delle 10, è stato chiuso da cinque colpi di pistola, sparati alle spalle mentre lui entrava nell’edicola dove tutti i giorni comperava i quotidiani. Il killer è sparito prima che arrivassero carabinieri e polizia. Nessuno lo ha visto. Sul movente il buio è, per il momento, assoluto.
Era un comunista, Peppino Marotto. Lo è stato per tutta la vita in un posto dove avere la tessera del Pci e quella della Cgil era una faccenda complicata, rischiosa. La sua storia lo dimostra. Con gli studi Peppino non va oltre la seconda elementare. L’istruzione è un lusso che i suoi non possono concedersi. A otto anni comincia a lavorare come «anzoneddàru», pastore di agnelli, alle dipendenze di uno zio. Il suo primo vero padrone lo incontra a dieci anni, quando va a fare il servo sul Supramonte: «Lui mi dava – racconta Marotto a Giuseppe Fiori nel libro “La società del malessere” – tre pecore all’anno, più il mangiare, che era questo: “orzatu”, il pane d’orzo, e sa “frure”, il latte cagliato». Nel 1945 il servizio di leva, fuori dal cerchio dell’ovile dove il tempo resta fermo, nell’Italia devastata dalla guerra. «Ho visto i paesi completamente rasi al suolo e dappertutto, nelle campagne, donne scheletriche fasciate di stracci, con bambini sfigurati dal poco alimento. Fu allora che imparai il comunismo».
Quando Peppino rientra a casa, nel 1947, trova una Barbagia ancora più povera di come l’aveva lasciata. Nella provincia di Nuoro il reddito individuale medio era di 80.000 lire all’anno contro le 164.000 della media nazionale. Miseria ed esplosioni di ribellismo individuale, violento quanto sterile: nessuna vera prospettiva di cambiare davvero le cose. Questo erano Orgosolo e l’intera Sardegna centrale in quegli anni. Insieme ad un gruppo di pastori e di contadini senza terra, nel 1948 Marotto dà vita ad una cooperativa, «La popolare». Chiedono, lui e gli altri, che venga loro concessa una piccola parte dei tanti latifondi incolti. Ma senza esito. Si inventano allora, nel marzo 1950, uno sciopero alla rovescia: costruire una strada che colleghi il paese ai pascoli, opera utile che nessun potere pubblico riesce a realizzare. Per qualche giorno li lasciano lavorare. Poi arrivano i carabinieri e li costringono a smettere. Poco dopo, a settembre, ad Orgosolo viene ucciso un uomo, Nicola Taras. La polizia mette sotto assedio il paese e arresta decine di persone. Marotto viene prima fermato e poi spedito al confino a Ustica. L’accusa, generica, è di favoreggiamento degli assassini di Taras. «Arrivati a Ustica – racconta – ci mettono a gruppi in cameroni che erano scuderie per cavalli. Fossa di insetti, chiamavano il nostro». Torna a casa nel settembre del 1952. Comincia il suo impegno nella Cgil, in poco tempo diventa segretario della Camera del lavoro di Orgosolo. Organizza i disoccupati e prova a dare una coscienza sindacale a giovani abituati ad avere come unico punto di riferimento il codice di guerra che regola i rapporti tra i clan familiari, il codice che in Barbagia prevede, come supremo elemento regolatore, la vendetta violenta, dallo sgarettamento del bestiame sino all’omicidio. È un’impresa quasi disperata. In quegli anni il paese è insanguinato da una delle più spietate faide che la Sardegna abbia mai conosciuto. «Ogni famiglia – ricorda Marotto – aveva almeno due o tre omicidi ricevuti o inflitti».
Il clima è pesantissimo. Alla fine del 1953 viene ucciso un carabiniere e Marotto, temendo di essere rispedito senza colpe a Ustica, si dà alla latitanza. Si costituisce dopo alcuni mesi, viene spedito al confino in Molise e poche settimane dopo viene arrestato, accusato di un omicidio e di una rapina avvenuti in Barbagia durante la sua latitanza. Inutili le sue proteste d’innocenza. Re-sta in galera, prima a Nuoro, poi ad Orvieto e a Spoleto, sino al 1962. Quando esce, va a vivere in Lombardia, dove lavora come stalliere. Alla fine del 1966 ritorna in Sardegna: «Dovevo farlo: mi sembrava di essere diviso in due. La società del benessere assicura il necessario, non dico di no, e ai più fortunati anche il superfluo. Solo non ci si trova spontaneità, rapporti umani sinceri, l’amicizia capace di sacrificio. A Orgosolo è un’altra cosa. Senti una voce in campagna e subito capisci. Vedi in paese una luce accendersi e di quella casa immagini tutto. Esistiamo insieme, ecco la diversità».
Di nuovo a casa, Peppino Marotto continua scommettere sul riscatto di una terra difficile. Ancora sindacato, la tessera del Pci e, insieme, la scrittura, le raccolte di poesie in lingua sarda, soprattutto «Su pianeta ’e Supramonte» e «Cantadas in sardu». Di cui l’antropologo Alberto Maria Cirese scrive: «La specificità della condizione sarda, senza perdersi, s’incorpora nell’unità di ideali più vasti, nella grande unità della cultura del movimento operaio».
«Esistiamo insieme». Questo era l’orizzonte di vita al quale Peppino Marotto ha sempre guardato. Cinque colpi di pistola lo hanno cancellato. Almeno per lui; perché ad Orgosolo il gusto di sfidare il mondo così com’è fatto (male) Peppino lo ha contagiato a tanti.
Costantino Cossu, «il Manifesto», 30/12/2007, p. 7
«Peppino Marotto ucciso nel suo paese Orgosolo», così mi arriva la notizia.
Peppino Marotto era un poeta, quando in un paese si uccidono i poeti vuol dire che quel paese è malato. L’Italia è sensibilmente malata dal 1975, quando fu ucciso Pasolini.
Peppino era un poeta popolare, cantava le sue rime in ottava con il suo coro, non era un uomo qualsiasi, per me Peppino era un profeta, era un grande. La sua vita dedicata all’impegno politico, ancora ieri, ottantenne, saliva ogni giorno alla Camera del Lavoro di Orgosolo che possiamo proprio definire «la sua camera del Lavoro» e la teneva aperta, lì, tutto solo, per essere disponibile ai lavoratori che avessero qualche problema da esporgli, qualche denuncia da fare al proprio sindacato, qualche padrone prepotente e inadempiente. Peppino non si era mai tirato indietro di fronte alle lotte per la sua terra, per il lavoro, cantava la vita di Gramsci e al popolo insegnava i sentimenti. «Peppino non era il cantore di una Sardegna passata, ha sempre cantato per la Sardegna del futuro» così mi dice Ivan Della Mea anche lui distrutto dalla notizia che ci è appena giunta, e per questo mondo del futuro era abituato Peppino, come tanti altri, a lottare. Insegnava ai giovani attraverso la sua poesia come si devono amare i grandi, come si deve riconoscere il valore di chi combatte per una vita giusta, contro la sopraffazione dell’uomo sull’uomo. Peppino non è mai invecchiato nella sua testa, oggi seguiva i fatti politici del nostro paese e parlava dello stato del mondo con termini illuminati, fedeli al suo credo di vecchio comunista, che aveva subito riconosciuto l’importanza della nascita della democrazia in Italia, della costruzione del paese fatta a partire dalla Costituzione.
L’importanza del sacrosanto valore della Resistenza in cui abbiamo tutti creduto educati proprio da persone come Peppino e gli altri grandi combattenti che stanno scomparendo purtroppo uno ad uno nel nostro malato paese. Malato perché è malata la vita dappertutto, per come nel mondo hanno vinto gli interessi delle multinazionali e quindi per come ha vinto, dovunque, lo sfacciato egoismo del singolo contro l’interesse dell’umanità . Peppino Marotto ha sempre lottato, l’hanno mandato al confino durante il fascismo e in carcere durante il governo di Scelba, sempre perché proclamava il suo credo e la sua ferma volontà nell’impedire che nel paese accadesse quello che accade adesso. La disgregazione degli ideali naturali dell’uomo, il lento progredire del male cioè dell’irreale contro il bene cioè la realtà. Con Peppino ho passato momenti magnifici, e mi ha insegnato sempre tanto. Abbiamo viaggiato e cantato insieme in Europa, era un fratello maggiore per me e un grande Maestro.
Quando Peppino tornava verso casa, la sera, anche adesso, dopo una brutta bronchite che lo lasciava senza respiro, dalla sua Camera del Lavoro, lui ogni volta si fermava prima della salita verso casa dove un terrazzino, sorta di piccolo promontorio, permette di guardare tutta la valle su Ogliena, si fermava lì per ammirare la sua valle. Peppino aveva ottantadue anni, ottantadue anni di una vita militante, ricca di tanta sapienza e generosità, ma chi ha potuto anche solo pensare di uccidere un uomo simile? Ma dove stiamo vivendo? Ma che paese è l’Italia?
I giovani non conoscono Peppino Marotto, da ora in poi sarà nostro dovere, di noi vecchi, dovere morale di farlo conoscere.
Giovanna Marini, «il Manifesto», 30/12/2007, p. 7