Segnaliamo il volume I custodi delle voci. Archivi orali in Toscana: primo censimento, uscito per la Regione Toscana a febbraio 2007 come ottavo volume della collana Beni Culturali, a cura di Alessandro Andreini e Pietro Clemente (351 pagine). Si tratta del primo censimento in Toscana degli Archivi orali. Il lavoro di ricerca è stato curato dall’IDAST (Iniziative Demo-Antropologiche e di Storia Orale in Toscana) diretta da Pietro Clemente.
Il volume in cartaceo si può richiedere gratuitamente via e-mail; è possibile inoltre scaricarne la versione digitale dal sito della Regione Toscana.
Indice:
- Claudio Martini, Introduzione
- Alessandro Andreini, Pietro Clemente, Fonografie toscane: una premessa dei curatori
- Gian Bruno Ravenni, La memoria nel tempo: fonti orali e archivi orali
- Pietro Clemente, Le loro voci e le nostre
- Alessandro Andreini, Archivi da ascoltare: un primo censimento degli archivi orali in Toscana
- Il censimento: le schede
- Alessandro Portelli, Alcune riflessioni
- Giovanni Contini, Censire gli archivi audiovisivi: primo passo per il loro salvataggio
- Valentina Simonetti, Il censimento nell’analisi archivistica e alcune considerazioni sulle fonti orali
- Silvia Sinibaldi, Parola d’archivio! Un’esperienza di censimento di archivi sonori in Toscana
- Fabio Mugnaini, La memoria del fare memoria. Gli archivi della tradizione in Toscana
- Paolo De Simonis, Fissazioni. Tempi e metodi nell’accogliere e conservare voci e immagini in Toscana
- Bibliografia
- Schede degli autori
Riportiamo un ampio brano tratto dal saggio di Pietro Clemente (Le loro voci e le nostre) incentrato sul ruolo degli archivi e dell’Istituto Ernesto de Martino di Sesto Fiorentino. La riflessione di Clemente connette la storia degli studi e la figura e l’opera di Gianni Bosio con i problemi attuali di conservazione, digitalizzazione e utilizzo delle fonti orali; un’ampia panoramica che intreccia il percorso di studioso di Clemente con le vicende e il ruolo di Bosio e dell’IEdM.
Negli studi italiani è stato Gianni Bosio, storico e militante politico che collaborò con Alberto Mario Cirese, studioso di tradizioni popolari e antropologo, a scrivere un Elogio del magnetofono. Gianni Bosio fu un militante politico-ricercatore del tutto originale, fu protagonista di tante imprese culturali, dalla rivista Movimento Operaio, al Nuovo Canzoniere Italiano, all’Istituto Ernesto de Martino (un archivio orale lombardo che ora sta a Sesto Fiorentino ed è qui documentato) , dei Dischi del sole, di «Bella Ciao» delle Edizioni Avanti! e delle Edizioni del Gallo. Una sorta di punto di riferimento – nel dialogo che ebbe con Cirese, Leydi, Della Peruta ed altri studiosi – della storia sociale che confina con l’antropologia, della promozione di riproposta musicale che confina con la politica e la «restituzione». In ogni caso la riflessione sulla «filologia» delle fonti, sulla schedatura dei nastri, sugli archivi orali nascono dalla sua riflessione. Il saggio Elogio del magnetofono nato nel 1966 e poi più volte ampliato cercava di «dare ordine e attendibilità a un materiale documentario che appare per la prima volta sulle scene della cultura tradizionale» (L’intellettuale rovesciato, a cura di C. Bermani, Istituto Ernesto de Martino/Jaca Book, Milano 1998). Il nesso tra la filologia di Bosio e quella di Alberto Cirese è stato all’origine della mia storia di studioso delle tradizioni popolari che si innestava su una congeniale giovinezza di adesione alla sinistra socialista di cui Bosio e Cirese, nel quadro delle posizioni di Lelio Basso, avevano militato (vedi anche P. Clemente, Temps, mémoire et rècits. Antropologie et histoire in Italia, regards d’athropologues italiens, numero monografico di Ethnologie Française, XXV, 3, 1994).
Gianni Bosio oppone al sordido Krapp, pochi anni dopo l’opera di Beckett e senza farci riferimento (sono io che li accosto e li oppongo) , al Krapp che consuma banane e si ascolta nel silenzio squallido dell’individuo moderno, una Italia in trasformazione impetuosa in cui «il magnetofono segna la presenza costante della cultura oppositiva la quale proviene non soltanto dalla obiettiva presenza storica delle classi popolari e della classe operaia, ma anche dalle forme di consapevolezza» (Elogio…, op. cit). Il registratore è un demarcatore di epoca per la voce delle classi popolari, come l’avvento della stampa ha rappresentato il dominio della classe dominante «Così il magnetofono restituisce alla cultura affidata ai mezzi di comunicazione orale lo strumento per emergere per prendere coscienza […] la possibilità di fissare col magnetofono modi di essere, porsi e comunicare […] ridona alla cultura delle classi oppresse la possibilità di preservare i modi della propria consapevolezza , cioè della propria cultura» (ibid.). Il registratore è allora, per Bosio, lo strumento che consente alle classi non egemoni di riappropriarsi di una propria modalità di espressione che il mondo dei consumi e del livellamento delle diverse culture sottrae loro.
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Come scriveva Franco Fortini sulla copertina di un disco «fondatore», Le canzoni di Bella Ciao, (Milano, I dischi del sole, 1964): «Qualche volta, dagli affreschi e dai quadri, i loro visi ci fissano. Ma dai libri quasi mai ne intendi la voce. Le loro generazioni hanno formato la lingua che parliamo, la sintassi dei nostri pensieri, l’orizzonte delle città, il presente. Ma la coscienza che anno dopo anno, mietitura dopo mietitura e pietra dopo pietra, essi formavano ai signori e ai padroni, quella coscienza non li riconosceva . Li ometteva. Confondeva le loro voci con quelle degli alberi o degli animali da cortile. Questi canti sono stati uditi – quando sono stati uditi – tutt’al più come voce di una cultura separata e arcaica; ma noi oggi sappiamo che essi esprimono un mondo di dominati in contestazione e in risposta».
Una frase quasi scolpita che incorpora il senso del registrare e riproporre le voci delle classi popolari come opportunità storica di cultura alternativa contro una cultura esclusivista delle classi dominanti.
Una risposta sempre forte e pertinente anche in un’epoca di attenuazione del rilievo delle classi ma di accentuazione del valore delle diversità.
Anche i protagonisti di queste testimonianze potrebbero volersi singolarmente riascoltare con il fastidio di Krapp, e negarsi nel loro essere stati documentati diversi da come ora sono. Lo sperimentiamo spesso in altro modo, con il divieto dei figli a pubblicare racconti dei padri ad esempio. Molti testimoni hanno cambiato punto di vista e lettura del passato dal momento del racconto, come è normale sia nella vita che negli studi, ma i nastri raccolti e documentati, le cassette dei molti registratori portatili di studenti, studiosi locali, tecnici e fonici ci rendono possibile dialogare ancora con gente scomparsa, con stili vocali non più in uso, con storie che non si raccontano più, e quindi non tanto di prenderle per vere, ma di ereditarle, riapprenderle, ripensarle, averle nel futuro.
Gli Archivi orali in Toscana sono un documento di una fase in gran parte conclusa – anche per la fine della magnetofonia in anni recenti a favore delle tecnologie digitali – di un’epoca di uso sociale del registratore, e di volontariato di ricerca finalizzato a scopi vicini a quelli delineati da Gianni Bosio, dare la voce, conservare la voce, non dimenticare un messaggio, una storia. Chi ha fatto queste ricerche col magnetofono ha collocato anche se stesso nella scena dialogica del documentare, molti archivi sono come le collezioni, tracce forti della personalità del raccoglitore.
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Della estrema delicatezza dei nastri registrati, del loro ambiguo e complesso valore, della loro storicità è un emblema l’Istituto Ernesto de Martino, nato a partire dal movimento intellettuale e artistico che produsse il Nuovo canzoniere Italiano, I Dischi del Sole, le Edizioni «Bella Ciao» e tante altre cose di un passato reso «remoto» dal ritmo della storia attuale. Solo nominare questi nomi richiede a chi legge un po’ di sosta, chiede lo sforzo di entrare in dimensioni non più o non mai transitate, a seconda dell’età e delle frequentazioni. La «scena originaria» è il Nord della Resistenza, delle lotte sociali, del movimento operaio. Movimento Operaio è una rivista che nasce nel 1949. Ma è solo negli anni ’60 che il movimento si coagula. I saggi del volume-raccolta di Gianni Bosio, L’intellettuale rovesciato a cura di Cesare Bermani, datano 1963–1971.
In questi anni i nessi tra Bosio e intellettuali, politici, ricercatori, militanti sono già di per sé difficili da immaginare. Bosio è morto a 48 anni nel 1971 ma ha avuto una forza di traino doppia negli anni di vita, ancora a lui si ispirano movimenti e incontri in vari luoghi d’Italia e in particolare il Circolo Gianni Bosio di Roma e la Lega di Cultura di Piadena.
Si diceva allora che, esaurita l’onda del Sud e delle lotte contadine gli studi sulla cultura popolare si spostavano a Nord proprio con la figura di Bosio, Cesare Bermani e l’Istituto de Martino che con Ivan Della Mea, Franco Coggiola e molti altri fondarono, con Danilo Montaldi e tanti altri (si pensi a Nuoto Revelli, a Ettore Guatelli) che lavoravano tra ricerca e politica a dare voce ai lavoratori senza storia. Delle ricerche della nuova cultura popolare a Nord sono vissute anche altre generazioni di studiosi, per me quel tipo di approccio è stato decisivo nella scelta di una «linea italiana» antropologica e non storica all’autobiografia e alle fonti orali. Questo mio modo è stato mediato da Alberto Cirese che collaborò con Gianni Bosio come studioso, filologo, antropologo e militante politico socialista. Nell’edizione del manuale che ha prevalso negli studi italiani, Cultura egemonica e culture subalterne scritto da A.M. Cirese nel 1973 (Palermo, Palumbo), le pagine 217–224 su «La nuova tematica socio-culturale» erano da noi le più frequentate, perché davano l’idea di entrare nell’onda di una storia ancora attiva, e la pagina 222 ha al centro Gianni Bosio e l’Istituto de Martino. Il mio primo studio sulla cultura italiana degli anni ’50 è del 1975 e in esso avviene l’incontro con Rocco Scotellaro, Danilo Dolci, Danilo Montali, Gianni Bosio, la ricerca extrauniversitaria che valorizzò la voce della gente comune e le autobiografie, e tessè «l’elogio del magnetofono» (P. Clemente, M.L. Meoni, M. Squillacciotti, Il dibattito sul folklore in Italia, Cultura popolare, Milano 1976 – ma il testo veniva da una dispensa del 1975, nel 1973 avevo cominciato a insegnare e ricercare all’Università, a Siena, al fianco di Alberto Cinese, nel 1975 ho conosciuto Cesare Bermani). Ma l’Archivio della Facoltà di Lettere di Siena è in gran parte costruito a partire da questi incontri, e anch’io ho scritto un inedito «elogio del magnetofono» dopo i miei primi cinque anni di ricerca tra gli indigeni in Toscana.
Le ricerche «lungo il corso dell’Adda» contenute negli archivi dell’Istituto de Martino hanno con la mia memoria una certa familiarità, anche se quando andai a Milano per vederne qualcosa, non potei accedervi. La ricerca di Bosio privilegiò il canto sociale, la musica, la vocalità del lavoro e della protesta, come forme della cultura altra, ma Carla Bianco dall’America portava le «fonti orali», le voci degli emigrati (Roseto Pennsylvania, 19 giugno 1966, in Strumenti di Lavoro n. 15) e Cesare Bermani riferiva le parole, i discorsi, le voci della gente comune, senza canti. Il testo di C. Bermani, L’altra cultura: interventi, rassegne, ricerche. Riflessi culturali di una milizia politica per me giovane studioso di tradizioni popolari è stato un testo influente, esso faceva parte di Strumenti di Lavoro, la collana curata da Cirese con Bosio, che produsse gli Archivi delle comunicazioni di massa e di classe, gli Archivi del mondo popolare, gli Archivi dell’Istituto Ernesto de Martino e gli Archivi sonori lungo gli anni ’60 e ’70, una quantità di iniziative legate alla voce e alla filologia dei documenti delle culture popolari che ora è oggetto raro e di culto. Le registrazioni fatte da Gianni Bosio in vari luoghi d’Italia sono talora ancora inedite.
È chiaro che entrare all’Istituto de Martino ora che si trova a Sesto Fiorentino in un ambiente storico ma caldo e solare produce un senso di sacro, di eredità, di presenza degli antenati, lo stesso fondo archivistico principale di Bosio, detto «Ida Pellegrini» è legato al nome di sua madre. Si capisce che schedare i nastri conservati dall’IEdM non comporta solo una abilità tecnica, ma richiede che ci si ambienti nel mondo in cui è nato, tra storia delle tecniche (campeggiano in alto alcuni giganteschi registratori d’epoca, ricordo sempre le discussioni sulla qualità dei microfoni che ho sentito fare da Franco Coggiola, da Mimmo Boninelli) e storia degli intellettuali, è così difficile cogliere un archivio nella sua particolarità, unicità, senza nascondersene la portata, i limiti, le durate. Non si può proprio immaginare che ad esso si dedichino persone che non si impegnano con sintonia e dedizione. Piuttosto dei continuatori che dei tecnici, piuttosto degli «eredi» che degli schedatori, degli iniziati che degli informatici. O forse meglio: degli informatici che abbiano l’umiltà di iniziarsi. Questo Archivio, ma così anche tanti altri, sono «patrimonio culturale» nel senso più pieno del termine come formulato anche nel Codice dei Beni culturali del paesaggio, bene doppio giacché le voci e i canti sono immateriali ma le bobine che li contengono, e che sono bene materiale a rischio di danneggiamento, sono uniche.
Schedare un archivio orale, ma forse anche uno di scritture personali, è sempre così. Non esistono dati ma dialoghi tra incisioni che vengono riprodotte e storie. A Sesto si possono ascoltare storie di chi ricorda i contesti delle registrazioni, gli stili di chi le realizzava e racconta e il racconto dovrebbe entrare nella scheda. Le incisioni hanno velocità diverse (cosa ormai abbandonata da 30 anni), intendibilità, valore che va collocato in un processo di comprensione, restituzione, restauro tecnico e che ponga in evidenza le poetiche che si producono attraverso le macchine. Ma poetiche, forme conoscitive, stili si producono anche nella classificazione e nella comparazione, nell’analisi delle varianti musicali e testuali degli esecutori. Un lavoro «all’infinito». Storie anche della ricerca che poi è continuata, del valore di ciò che è documentato. Tutte cose che richiedono dei «link» che non sono solo nel software, ma prima e soprattutto nella memoria attiva, nella capacità di comprendere il senso, nelle storie di chi ha investito la vita nel fare ricerca con le fonti orali e ha prodotto gli archivi come «organismi viventi» vitali e tra loro diversi, alcuni proiettati all’esterno, altri conflittuali, monastici o plurali, e comunque sia per capire un archivio sia per schedare un nastro occorre averne compreso l’identità. Se concepita in questo quadro la schedatura è un processo di sempre nuova conoscenza, una prova del circolo ermeneutico. L’Archivio Nazionale Diaristico di Pieve Santo Stefano è un luogo interessante per esperimenti di schedatura ermeneutica infinita: fare le schede «vissute» da ogni lettore. Ho preso lo spunto da Philippe Lejeune, teorico e interprete francese dell’autobiografia, che racconta di come lui lavora a ricostruire il mondo degli scrittori autobiograficii. Se facessimo delle schede aperte dei diari, epistolari, memorie (ma anche audiocassette, nastri, bobine) che – depositate lì – i lettori leggono o studiano (ascoltano) ogni opera si arricchirebbe dei pensieri, delle conoscenze e delle esperienze dei lettori, dei loro impegni di comprensione, così che altri lettori possano capire il testo per sé, per i percorsi di altri lettori, per differenza dei loro. In effetti è questa la vita della conoscenza che ha molto più a che fare con le presone e le storie che non con le cose. La scheda più efficace di un nastro registrato da Gianni Bosio in Calabria (tanto per dire) 50 anni fa è quella che ne contenga la trascrizione, i riferimenti al contesto,tramite racconto di eventuali presenti, il racconto del viaggio di altri che ci erano stati per ricerche prima o dopo, il link con i canti di quel tipo calabresi e occidentali, le notizie sui cantori locali, i racconti di Ivan Della Mea su come Bosio registrava, i dibattiti successivi sulle tecniche del registrare e sulle varianti dei testi etc. Occorre domandarsi perché Bosio «cercava» quel tipo di contenuto canoro o narrativo e perché era importante per lui, e perché quelle cose magari oggi non si cercano più. Occorrerebbe conoscere tutti gli scritti su Bosio scritti da Bermani, la ricostruzione dei dibattiti tra canzoniere Italiano e Istituto de Martino, percepire come la pensava lui, come mutava la sua ricerca, il parere di un giovane di oggi su quel canto, i riferimenti agli epistolari di Bosio se ci sono, una riflessione sullo stato di attenzione oggi negli studi storici, storici orali, antropologici sulla ricerca di Bosio, un parere tecnico sulla registrazione e le apparecchiature con cui era realizzata, un diario di ascolto dello schedatore col resoconto delle difficoltà che ha avuto nel compilare una scheda cartacea elementare con i dati e quindi degli spazi per le impressioni di tutti gli uditori di quel nastro che ci sono stati. Confrontare con l’etnomusicologia di oggi, con la cultura giovanile successiva al «ritorno della Taranta» e all’affermazione dell’identità salentina e meridiana. Forse esagero. Ma occorre dare l’idea della fecondità aperta del documento, e non di una sua chiusura irreversibile in un numero di scheda. Se domani avessimo in rete disponibili tutti gli archivi orali, senza «guide», senza criteri di accesso e di valorizzazione rischieremmo di non sapere che farne. Lo stesso varrebbe se si trattasse di letteratura o di archeologia e ci fosse da definire una autorialità, una formazione, non a caso la filologia nasce dai testi e poi dalla storia.
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Di recente sono stato in visita all’IEdM a Sesto Fiorentino. Era una giornata di sole e il prato dietro lo spazio dell’Istituto era pieno di luce di silenzio e di ulivi, quasi monastico. Stare lì a studiare sarebbe stato bellissimo. Mi sarei prenotato per restarci un mese. Studiare significa conoscere, in questo caso ascoltare, frugare, farsi narrare. Capivo che quello spazio, i libri, le bobine potevano dire a me qualcosa di diverso rispetto a quel che dicono a Ivan Della Mea che ha una storia inclusa in esso, ma anche di diverso da Antonio Fanelli, un giovane studioso molisano che ci si avvicina oggi a partire da una tesi di laurea. L’IEdM è inscritto nella mia storia intellettuale, quindi sono un potenziale «custode» o «mediatore» della sua comprensione come «forma di vita» che si è data nel tempo e che secondo me deve essere «ereditata». Ereditare significa ridare senso, ridare valore, interpretare. Nulla vale fuori di questi processi.
Se non vediamo così gli archivi essi diventano liste di contenitori e di supporti magnetici.
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Si capisce che spesso l’IEdM abbia insistito nel presentare il proprio patrimonio in termini descrittivi, elencativi, quasi notarili. Dietro gli elenchi c’era il senso del sacro custodito, la memoria delle vite impiegate, il ricordo ora sempre più ampio degli antenati fondatori e delle loro vicende, spesso battagliere o settarie.
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Gli Archivi non sono solo quel che c’è depositato. Chissà perché li chiamiamo Archivi? Forse anche in questo c’è una influenza di Bosio. Se senti un archivista di mestiere ti dirà che sono «raccolte di nastri», o «collezioni», l’archivio è un’altra cosa, è legato a un progetto pubblico doveroso e sistematico di fonti scritte, ma questi nostri guizzi di ricerca e di deposito di nastri come possono essere chiamati archivi?
Credo che noi vogliamo che siano archivi proprio nel senso di materiali, repertori di fonti e documenti per la conoscenza, una conoscenza che Gianni Bosio sottolineò essere connessa alle classi sociali che non si esprimevano attraverso la scrittura. Sono «archivi» nel senso che sono i depositi conoscitivi di un’altra cultura rispetto a quella degli archivi di Stato, dell’industria ecc. Oggi forse ci accontentiamo che questa cultura è legata alla vita quotidiana, alla gente comune, alla non ufficialità. È l’idea più ampia di una storia raccontata da chi la vive più che da chi la «fa» nel senso pubblico e politico del termine. Ma in questo senso l’archivio è la storia del farsi delle ricerche che lo hanno costituito.
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Ma capisco che per anni a quelli dell’Istituto de Martino sia venuta la pelle d’oca per il timore di perdere il patrimonio delle inchieste Bosio e altri e che ancora siano inquieti e che discutano sulla durata dei supporti digitali: dal CD sono passati al DVD e ora all’hard disk. Vogliono conservare la memoria. Si attrezzano a resistere. Un gesto di «resistenza» intorno al quale occorre sempre più creare un alone virtuoso di solidarietà, perché è un gesto sprofondato nella disattenzione o emergente solo nei doveri della retorica pubblica. Si parla tanto di memoria ma non di tutela degli archivi della memoria.
Anche nell’Archivio de Martino non ci sono solo cose toscane, anzi ci sono soprattutto cose non toscane. È un archivio di interesse nazionale adottato da un comune toscano per disagi nel contesto milanese.