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Spostamento dell’ultima giornata di InCanto

Per motivi organizzativi l’ultima giornata di InCanto slitta dal 7 al 14 giugno (non luglio come avevamo scritto stamattina), e purtroppo Daniele Sepe non potrà partecipare.
Già che ci siamo ricordiamo che sabato prossimo, 24 maggio, ci sarà il concerto con le Officine Boninelli Aerea "Ma che colpa abbiamo noi", alle 21.15 a Villa San Lorenzo (Via Scardassieri 47, Sesto Fiorentino), con ingresso a 5 euro. 

Primo maggio e InCanto 2008

Primo maggio e InCanto 2008
  

Il socialismo e la filologia

Segnaliamo la pubblicazione sulla rivista «Lares», quadrimestrale di studi demo-etno-antropologici, diretta da Pietro Clemente, nel numero 1, 2007 del saggio di Antonio Fanelli dal titolo Il socialismo e la filologia. Il carteggio tra Alberto Mario Cirese e Gianni Bosio (1953-1970). La ricerca è stata condotta tra le carte dell’archivio privato del professor Alberto Mario Cirese a Roma, a Piazza Capri, e tra quelle dell’archivio Edizioni Avanti!-del Gallo presso l’Istituto Ernesto de Martino di Sesto Fiorentino.
Riportiamo la sintesi del saggio così come contenuta nella rivista.

ll carteggio tra Alberto Mario Cirese e Gianni Bosio attraversa un lungo periodo di ricerche, di lavoro e di amicizia che trova nella creazione dell’Istituto Ernesto de Martino il suo momento più importante, con la collaborazione di Cirese ai primi anni di attività e alla organizzazione interna dell’Istituto. La base comune del loro lavoro è stata la grande esperienza politica del primo dopoguerra nella sinistra socialista, laica e antistalinista, al fianco di Lelio Basso e un forte impianto di studi di carattere storico-filologico comune a entrambi. Già nei primi anni ’50 Bosio coglie il valore delle esperienze demologiche di Cirese cercando di portarlo a «Movimento operaio» e assumendo la produzione de «La Lapa» presso le Edizioni Avanti!. Come responsabile della sezione cultura del PSI, Cirese cerca tra il 1957 e il 1959 di sostenere l’attività editoriale di Bosio e successivamente negli anni ’60 si muove tra mondo accademico e ricerca militante legata a Bosio e al NCI cercando di avvicinare queste due sfere allora molto distanti, riconoscendo sempre un grande rilievo al lavoro di Bosio nell’ambito della storia degli studi.

“A quel omm” a Sesto Fiorentino

L’Unione Operaia di Colonnata e l’associazione Anèmic, in collaborazione con l’Istituto Ernesto de Martino, presentano

Giovedì 3 aprile, ore 21.15
Anteprima del film

A QUEL OMM

Gente di Milano – Ivan Della Mea
Di Isabella Ciarchi

al Cinema Il Quartuccio
presso l’Unione Operaia di Colonnata, in Piazza Rapisardi 6, Sesto Fiorentino

Saranno presenti Isabella Ciarchi e Ivan Della Mea

Luigi Ivan Della Mea racconta il proprio incontro con la città di Milano. Travagliato, intenso, faticoso, poetico, prolifico… vissuto senza mezzi termini dal 1950 a oggi. Le atmosfere rievocate sottolineano il profilo di una città diversa da quella di oggi anche se le tematiche che la percorrono sono sempre le stesse. Al racconto hanno collaborato Luigi Pestalozza, Nuccio Ambrosino, Dante Bellamio, Paolo Ciarchi, Filippo Crivelli, Massimo Devita, Laura Grimaldi, Sandra Mantovani, Gianni Mura, Marco Tropea.

Fausto e Iaio. Trent’anni dopo

18 marzo 1978: Fausto Tinelli e Lorenzo "Iaio" Iannucci vengono uccisi a Milano, in via Mancinelli, in un agguato fascista.
A distanza di trent’anni si aspetta ancora giustizia.
Segnaliamo l’uscita di questa raccolta di scritti, documenti, testimonianze per non dimenticare: Fausto e Iaio. Trent’anni dopo, ed. Costa e Nolan.

“A quel omm”

Isabella Ciarchi ha realizzato un filmato su Ivan Della Mea intitolato A quel omm, prodotto dal settore Cultura della Provincia di Milano.
Il video, che contiene anche testimonianze sull’attività dell’Istituto Ernesto de Martino, de i Dischi del Sole e del Nuovo Canzoniere Italiano, verrà presentato il 5 febbraio 2008 alle ore 21 allo Spazio Oberdan, in viale Vittorio Veneto 2, a Milano.
Con l’autrice saranno presenti Paolo Ciarchi, Gianni Mura e Luigi Pestalozza.
L’ingresso è libero fino a esaurimento posti.
Per informazioni:
Provincia di Milano, Settore cultura tel. 02-77402807
Ufficio Stampa: tel. 02-77406358/59

I custodi delle voci

Segnaliamo il volume I custodi delle voci. Archivi orali in Toscana: primo censimento, uscito per la Regione Toscana a febbraio 2007 come ottavo volume della collana Beni Culturali, a cura di Alessandro Andreini e Pietro Clemente (351 pagine). Si tratta del primo censimento in Toscana degli Archivi orali. Il lavoro di ricerca è stato curato dall’IDAST (Iniziative Demo-Antropologiche e di Storia Orale in Toscana) diretta da Pietro Clemente.
Il volume in cartaceo si può richiedere gratuitamente via e-mail; è possibile inoltre scaricarne la versione digitale dal sito della Regione Toscana.

Indice:

  • Claudio Martini, Introduzione
  • Alessandro Andreini, Pietro Clemente, Fonografie toscane: una premessa dei curatori
  • Gian Bruno Ravenni, La memoria nel tempo: fonti orali e archivi orali
  • Pietro Clemente, Le loro voci e le nostre
  • Alessandro Andreini, Archivi da ascoltare: un primo censimento degli archivi orali in Toscana
  • Il censimento: le schede
  • Alessandro Portelli, Alcune riflessioni
  • Giovanni Contini, Censire gli archivi audiovisivi: primo passo per il loro salvataggio
  • Valentina Simonetti, Il censimento nell’analisi archivistica e alcune considerazioni sulle fonti orali
  • Silvia Sinibaldi, Parola d’archivio! Un’esperienza di censimento di archivi sonori in Toscana
  • Fabio Mugnaini, La memoria del fare memoria. Gli archivi della tradizione in Toscana
  • Paolo De Simonis, Fissazioni. Tempi e metodi nell’accogliere e conservare voci e immagini in Toscana
  • Bibliografia
  • Schede degli autori

Riportiamo un ampio brano tratto dal saggio di Pietro Clemente (Le loro voci e le nostre) incentrato sul ruolo degli archivi e dell’Istituto Ernesto de Martino di Sesto Fiorentino. La riflessione di Clemente connette la storia degli studi e la figura e l’opera di Gianni Bosio con i problemi attuali di conservazione, digitalizzazione e utilizzo delle fonti orali; un’ampia panoramica che intreccia il percorso di studioso di Clemente con le vicende e il ruolo di Bosio e dell’IEdM.

Negli studi italiani è stato Gianni Bosio, storico e militante politico che collaborò con Alberto Mario Cirese, studioso di tradizioni popolari e antropologo, a scrivere un Elogio del magnetofono. Gianni Bosio fu un militante politico-ricercatore del tutto originale, fu protagonista di tante imprese culturali, dalla rivista Movimento Operaio, al Nuovo Canzoniere Italiano, all’Istituto Ernesto de Martino (un archivio orale lombardo che ora sta a Sesto Fiorentino ed è qui documentato) , dei Dischi del sole, di «Bella Ciao» delle Edizioni Avanti! e delle Edizioni del Gallo. Una sorta di punto di riferimento – nel dialogo che ebbe con Cirese, Leydi, Della Peruta ed altri studiosi – della storia sociale che confina con l’antropologia, della promozione di riproposta musicale che confina con la politica e la «restituzione». In ogni caso la riflessione sulla «filologia» delle fonti, sulla schedatura dei nastri, sugli archivi orali nascono dalla sua riflessione. Il saggio Elogio del magnetofono nato nel 1966 e poi più volte ampliato cercava di «dare ordine e attendibilità a un materiale documentario che appare per la prima volta sulle scene della cultura tradizionale» (L’intellettuale rovesciato, a cura di C. Bermani, Istituto Ernesto de Martino/Jaca Book, Milano 1998). Il nesso tra la filologia di Bosio e quella di Alberto Cirese è stato all’origine della mia storia di studioso delle tradizioni popolari che si innestava su una congeniale giovinezza di adesione alla sinistra socialista di cui Bosio e Cirese, nel quadro delle posizioni di Lelio Basso, avevano militato (vedi anche P. Clemente, Temps, mémoire et rècits. Antropologie et histoire in Italia, regards d’athropologues italiens, numero monografico di Ethnologie Française, XXV, 3, 1994).
Gianni Bosio oppone al sordido Krapp, pochi anni dopo l’opera di Beckett e senza farci riferimento (sono io che li accosto e li oppongo) , al Krapp che consuma banane e si ascolta nel silenzio squallido dell’individuo moderno, una Italia in trasformazione impetuosa in cui «il magnetofono segna la presenza costante della cultura oppositiva la quale proviene non soltanto dalla obiettiva presenza storica delle classi popolari e della classe operaia, ma anche dalle forme di consapevolezza» (Elogio…, op. cit). Il registratore è un demarcatore di epoca per la voce delle classi popolari, come l’avvento della stampa ha rappresentato il dominio della classe dominante «Così il magnetofono restituisce alla cultura affidata ai mezzi di comunicazione orale lo strumento per emergere per prendere coscienza […] la possibilità di fissare col magnetofono modi di essere, porsi e comunicare […] ridona alla cultura delle classi oppresse la possibilità di preservare i modi della propria consapevolezza , cioè della propria cultura» (ibid.). Il registratore è allora, per Bosio, lo strumento che consente alle classi non egemoni di riappropriarsi di una propria modalità di espressione che il mondo dei consumi e del livellamento delle diverse culture sottrae loro.
[…]
Come scriveva Franco Fortini sulla copertina di un disco «fondatore», Le canzoni di Bella Ciao, (Milano, I dischi del sole, 1964): «Qualche volta, dagli affreschi e dai quadri, i loro visi ci fissano. Ma dai libri quasi mai ne intendi la voce. Le loro generazioni hanno formato la lingua che parliamo, la sintassi dei nostri pensieri, l’orizzonte delle città, il presente. Ma la coscienza che anno dopo anno, mietitura dopo mietitura e pietra dopo pietra, essi formavano ai signori e ai padroni, quella coscienza non li riconosceva . Li ometteva. Confondeva le loro voci con quelle degli alberi o degli animali da cortile. Questi canti sono stati uditi – quando sono stati uditi – tutt’al più come voce di una cultura separata e arcaica; ma noi oggi sappiamo che essi esprimono un mondo di dominati in contestazione e in risposta».
Una frase quasi scolpita che incorpora il senso del registrare e riproporre le voci delle classi popolari come opportunità storica di cultura alternativa contro una cultura esclusivista delle classi dominanti.
Una risposta sempre forte e pertinente anche in un’epoca di attenuazione del rilievo delle classi ma di accentuazione del valore delle diversità.
Anche i protagonisti di queste testimonianze potrebbero volersi singolarmente riascoltare con il fastidio di Krapp, e negarsi nel loro essere stati documentati diversi da come ora sono. Lo sperimentiamo spesso in altro modo, con il divieto dei figli a pubblicare racconti dei padri ad esempio. Molti testimoni hanno cambiato punto di vista e lettura del passato dal momento del racconto, come è normale sia nella vita che negli studi, ma i nastri raccolti e documentati, le cassette dei molti registratori portatili di studenti, studiosi locali, tecnici e fonici ci rendono possibile dialogare ancora con gente scomparsa, con stili vocali non più in uso, con storie che non si raccontano più, e quindi non tanto di prenderle per vere, ma di ereditarle, riapprenderle, ripensarle, averle nel futuro.
Gli Archivi orali in Toscana sono un documento di una fase in gran parte conclusa – anche per la fine della magnetofonia in anni recenti a favore delle tecnologie digitali – di un’epoca di uso sociale del registratore, e di volontariato di ricerca finalizzato a scopi vicini a quelli delineati da Gianni Bosio, dare la voce, conservare la voce, non dimenticare un messaggio, una storia. Chi ha fatto queste ricerche col magnetofono ha collocato anche se stesso nella scena dialogica del documentare, molti archivi sono come le collezioni, tracce forti della personalità del raccoglitore.
[…]
Della estrema delicatezza dei nastri registrati, del loro ambiguo e complesso valore, della loro storicità è un emblema l’Istituto Ernesto de Martino, nato a partire dal movimento intellettuale e artistico che produsse il Nuovo canzoniere Italiano, I Dischi del Sole, le Edizioni «Bella Ciao» e tante altre cose di un passato reso «remoto» dal ritmo della storia attuale. Solo nominare questi nomi richiede a chi legge un po’ di sosta, chiede lo sforzo di entrare in dimensioni non più o non mai transitate, a seconda dell’età e delle frequentazioni. La «scena originaria» è il Nord della Resistenza, delle lotte sociali, del movimento operaio. Movimento Operaio è una rivista che nasce nel 1949. Ma è solo negli anni ’60 che il movimento si coagula. I saggi del volume-raccolta di Gianni Bosio, L’intellettuale rovesciato a cura di Cesare Bermani, datano 1963–1971.
In questi anni i nessi tra Bosio e intellettuali, politici, ricercatori, militanti sono già di per sé difficili da immaginare. Bosio è morto a 48 anni nel 1971 ma ha avuto una forza di traino doppia negli anni di vita, ancora a lui si ispirano movimenti e incontri in vari luoghi d’Italia e in particolare il Circolo Gianni Bosio di Roma e la Lega di Cultura di Piadena.
Si diceva allora che, esaurita l’onda del Sud e delle lotte contadine gli studi sulla cultura popolare si spostavano a Nord proprio con la figura di Bosio, Cesare Bermani e l’Istituto de Martino che con Ivan Della Mea, Franco Coggiola e molti altri fondarono, con Danilo Montaldi e tanti altri (si pensi a Nuoto Revelli, a Ettore Guatelli) che lavoravano tra ricerca e politica a dare voce ai lavoratori senza storia. Delle ricerche della nuova cultura popolare a Nord sono vissute anche altre generazioni di studiosi, per me quel tipo di approccio è stato decisivo nella scelta di una «linea italiana» antropologica e non storica all’autobiografia e alle fonti orali. Questo mio modo è stato mediato da Alberto Cirese che collaborò con Gianni Bosio come studioso, filologo, antropologo e militante politico socialista. Nell’edizione del manuale che ha prevalso negli studi italiani, Cultura egemonica e culture subalterne scritto da A.M. Cirese nel 1973 (Palermo, Palumbo), le pagine 217–224 su «La nuova tematica socio-culturale» erano da noi le più frequentate, perché davano l’idea di entrare nell’onda di una storia ancora attiva, e la pagina 222 ha al centro Gianni Bosio e l’Istituto de Martino. Il mio primo studio sulla cultura italiana degli anni ’50 è del 1975 e in esso avviene l’incontro con Rocco Scotellaro, Danilo Dolci, Danilo Montali, Gianni Bosio, la ricerca extrauniversitaria che valorizzò la voce della gente comune e le autobiografie, e tessè «l’elogio del magnetofono» (P. Clemente, M.L. Meoni, M. Squillacciotti, Il dibattito sul folklore in Italia, Cultura popolare, Milano 1976 – ma il testo veniva da una dispensa del 1975, nel 1973 avevo cominciato a insegnare e ricercare all’Università, a Siena, al fianco di Alberto Cinese, nel 1975 ho conosciuto Cesare Bermani). Ma l’Archivio della Facoltà di Lettere di Siena è in gran parte costruito a partire da questi incontri, e anch’io ho scritto un inedito «elogio del magnetofono» dopo i miei primi cinque anni di ricerca tra gli indigeni in Toscana.
Le ricerche «lungo il corso dell’Adda» contenute negli archivi dell’Istituto de Martino hanno con la mia memoria una certa familiarità, anche se quando andai a Milano per vederne qualcosa, non potei accedervi. La ricerca di Bosio privilegiò il canto sociale, la musica, la vocalità del lavoro e della protesta, come forme della cultura altra, ma Carla Bianco dall’America portava le «fonti orali», le voci degli emigrati (Roseto Pennsylvania, 19 giugno 1966, in Strumenti di Lavoro n. 15) e Cesare Bermani riferiva le parole, i discorsi, le voci della gente comune, senza canti. Il testo di C. Bermani, L’altra cultura: interventi, rassegne, ricerche. Riflessi culturali di una milizia politica per me giovane studioso di tradizioni popolari è stato un testo influente, esso faceva parte di Strumenti di Lavoro, la collana curata da Cirese con Bosio, che produsse gli Archivi delle comunicazioni di massa e di classe, gli Archivi del mondo popolare, gli Archivi dell’Istituto Ernesto de Martino e gli Archivi sonori lungo gli anni ’60 e ’70, una quantità di iniziative legate alla voce e alla filologia dei documenti delle culture popolari che ora è oggetto raro e di culto. Le registrazioni fatte da Gianni Bosio in vari luoghi d’Italia sono talora ancora inedite.
È chiaro che entrare all’Istituto de Martino ora che si trova a Sesto Fiorentino in un ambiente storico ma caldo e solare produce un senso di sacro, di eredità, di presenza degli antenati, lo stesso fondo archivistico principale di Bosio, detto «Ida Pellegrini» è legato al nome di sua madre. Si capisce che schedare i nastri conservati dall’IEdM non comporta solo una abilità tecnica, ma richiede che ci si ambienti nel mondo in cui è nato, tra storia delle tecniche (campeggiano in alto alcuni giganteschi registratori d’epoca, ricordo sempre le discussioni sulla qualità dei microfoni che ho sentito fare da Franco Coggiola, da Mimmo Boninelli) e storia degli intellettuali, è così difficile cogliere un archivio nella sua particolarità, unicità, senza nascondersene la portata, i limiti, le durate. Non si può proprio immaginare che ad esso si dedichino persone che non si impegnano con sintonia e dedizione. Piuttosto dei continuatori che dei tecnici, piuttosto degli «eredi» che degli schedatori, degli iniziati che degli informatici. O forse meglio: degli informatici che abbiano l’umiltà di iniziarsi. Questo Archivio, ma così anche tanti altri, sono «patrimonio culturale» nel senso più pieno del termine come formulato anche nel Codice dei Beni culturali del paesaggio, bene doppio giacché le voci e i canti sono immateriali ma le bobine che li contengono, e che sono bene materiale a rischio di danneggiamento, sono uniche.
Schedare un archivio orale, ma forse anche uno di scritture personali, è sempre così. Non esistono dati ma dialoghi tra incisioni che vengono riprodotte e storie. A Sesto si possono ascoltare storie di chi ricorda i contesti delle registrazioni, gli stili di chi le realizzava e racconta e il racconto dovrebbe entrare nella scheda. Le incisioni hanno velocità diverse (cosa ormai abbandonata da 30 anni), intendibilità, valore che va collocato in un processo di comprensione, restituzione, restauro tecnico e che ponga in evidenza le poetiche che si producono attraverso le macchine. Ma poetiche, forme conoscitive, stili si producono anche nella classificazione e nella comparazione, nell’analisi delle varianti musicali e testuali degli esecutori. Un lavoro «all’infinito». Storie anche della ricerca che poi è continuata, del valore di ciò che è documentato. Tutte cose che richiedono dei «link» che non sono solo nel software, ma prima e soprattutto nella memoria attiva, nella capacità di comprendere il senso, nelle storie di chi ha investito la vita nel fare ricerca con le fonti orali e ha prodotto gli archivi come «organismi viventi» vitali e tra loro diversi, alcuni proiettati all’esterno, altri conflittuali, monastici o plurali, e comunque sia per capire un archivio sia per schedare un nastro occorre averne compreso l’identità. Se concepita in questo quadro la schedatura è un processo di sempre nuova conoscenza, una prova del circolo ermeneutico. L’Archivio Nazionale Diaristico di Pieve Santo Stefano è un luogo interessante per esperimenti di schedatura ermeneutica infinita: fare le schede «vissute» da ogni lettore. Ho preso lo spunto da Philippe Lejeune, teorico e interprete francese dell’autobiografia, che racconta di come lui lavora a ricostruire il mondo degli scrittori autobiograficii. Se facessimo delle schede aperte dei diari, epistolari, memorie (ma anche audiocassette, nastri, bobine) che – depositate lì – i lettori leggono o studiano (ascoltano) ogni opera si arricchirebbe dei pensieri, delle conoscenze e delle esperienze dei lettori, dei loro impegni di comprensione, così che altri lettori possano capire il testo per sé, per i percorsi di altri lettori, per differenza dei loro. In effetti è questa la vita della conoscenza che ha molto più a che fare con le presone e le storie che non con le cose. La scheda più efficace di un nastro registrato da Gianni Bosio in Calabria (tanto per dire) 50 anni fa è quella che ne contenga la trascrizione, i riferimenti al contesto,tramite racconto di eventuali presenti, il racconto del viaggio di altri che ci erano stati per ricerche prima o dopo, il link con i canti di quel tipo calabresi e occidentali, le notizie sui cantori locali, i racconti di Ivan Della Mea su come Bosio registrava, i dibattiti successivi sulle tecniche del registrare e sulle varianti dei testi etc. Occorre domandarsi perché Bosio «cercava» quel tipo di contenuto canoro o narrativo e perché era importante per lui, e perché quelle cose magari oggi non si cercano più. Occorrerebbe conoscere tutti gli scritti su Bosio scritti da Bermani, la ricostruzione dei dibattiti tra canzoniere Italiano e Istituto de Martino, percepire come la pensava lui, come mutava la sua ricerca, il parere di un giovane di oggi su quel canto, i riferimenti agli epistolari di Bosio se ci sono, una riflessione sullo stato di attenzione oggi negli studi storici, storici orali, antropologici sulla ricerca di Bosio, un parere tecnico sulla registrazione e le apparecchiature con cui era realizzata, un diario di ascolto dello schedatore col resoconto delle difficoltà che ha avuto nel compilare una scheda cartacea elementare con i dati e quindi degli spazi per le impressioni di tutti gli uditori di quel nastro che ci sono stati. Confrontare con l’etnomusicologia di oggi, con la cultura giovanile successiva al «ritorno della Taranta» e all’affermazione dell’identità salentina e meridiana. Forse esagero. Ma occorre dare l’idea della fecondità aperta del documento, e non di una sua chiusura irreversibile in un numero di scheda. Se domani avessimo in rete disponibili tutti gli archivi orali, senza «guide», senza criteri di accesso e di valorizzazione rischieremmo di non sapere che farne. Lo stesso varrebbe se si trattasse di letteratura o di archeologia e ci fosse da definire una autorialità, una formazione, non a caso la filologia nasce dai testi e poi dalla storia.
[…]
Di recente sono stato in visita all’IEdM a Sesto Fiorentino. Era una giornata di sole e il prato dietro lo spazio dell’Istituto era pieno di luce di silenzio e di ulivi, quasi monastico. Stare lì a studiare sarebbe stato bellissimo. Mi sarei prenotato per restarci un mese. Studiare significa conoscere, in questo caso ascoltare, frugare, farsi narrare. Capivo che quello spazio, i libri, le bobine potevano dire a me qualcosa di diverso rispetto a quel che dicono a Ivan Della Mea che ha una storia inclusa in esso, ma anche di diverso da Antonio Fanelli, un giovane studioso molisano che ci si avvicina oggi a partire da una tesi di laurea. L’IEdM è inscritto nella mia storia intellettuale, quindi sono un potenziale «custode» o «mediatore» della sua comprensione come «forma di vita» che si è data nel tempo e che secondo me deve essere «ereditata». Ereditare significa ridare senso, ridare valore, interpretare. Nulla vale fuori di questi processi.
Se non vediamo così gli archivi essi diventano liste di contenitori e di supporti magnetici.
[…]
Si capisce che spesso l’IEdM abbia insistito nel presentare il proprio patrimonio in termini descrittivi, elencativi, quasi notarili. Dietro gli elenchi c’era il senso del sacro custodito, la memoria delle vite impiegate, il ricordo ora sempre più ampio degli antenati fondatori e delle loro vicende, spesso battagliere o settarie.
[…]
Gli Archivi non sono solo quel che c’è depositato. Chissà perché li chiamiamo Archivi? Forse anche in questo c’è una influenza di Bosio. Se senti un archivista di mestiere ti dirà che sono «raccolte di nastri», o «collezioni», l’archivio è un’altra cosa, è legato a un progetto pubblico doveroso e sistematico di fonti scritte, ma questi nostri guizzi di ricerca e di deposito di nastri come possono essere chiamati archivi?
Credo che noi vogliamo che siano archivi proprio nel senso di materiali, repertori di fonti e documenti per la conoscenza, una conoscenza che Gianni Bosio sottolineò essere connessa alle classi sociali che non si esprimevano attraverso la scrittura. Sono «archivi» nel senso che sono i depositi conoscitivi di un’altra cultura rispetto a quella degli archivi di Stato, dell’industria ecc. Oggi forse ci accontentiamo che questa cultura è legata alla vita quotidiana, alla gente comune, alla non ufficialità. È l’idea più ampia di una storia raccontata da chi la vive più che da chi la «fa» nel senso pubblico e politico del termine. Ma in questo senso l’archivio è la storia del farsi delle ricerche che lo hanno costituito.
[…]
Ma capisco che per anni a quelli dell’Istituto de Martino sia venuta la pelle d’oca per il timore di perdere il patrimonio delle inchieste Bosio e altri e che ancora siano inquieti e che discutano sulla durata dei supporti digitali: dal CD sono passati al DVD e ora all’hard disk. Vogliono conservare la memoria. Si attrezzano a resistere. Un gesto di «resistenza» intorno al quale occorre sempre più creare un alone virtuoso di solidarietà, perché è un gesto sprofondato nella disattenzione o emergente solo nei doveri della retorica pubblica. Si parla tanto di memoria ma non di tutela degli archivi della memoria.
Anche nell’Archivio de Martino non ci sono solo cose toscane, anzi ci sono soprattutto cose non toscane. È un archivio di interesse nazionale adottato da un comune toscano per disagi nel contesto milanese.

Fonti orali. Istruzioni per l’uso

Segnaliamo una pubblicazione di prossima uscita curata dalla Società di Mutuo Soccorso Ernesto de Martino.
Il volume Fonti orali. Istruzioni per l’uso raccoglie alcune delle relazioni svolte nei due corsi di formazione per ricercatori organizzati dalla SMSdM a Venezia nel 2004 e 2006.
Questo il sommario:

  • Cesare Bermani, Considerazioni sulla memoria, la storia e la ricerca sul campo
  • Bruno Cartosio, Storia orale e storia
  • Alessandro Portelli, Materiali orali e loro aspetto narrativo
  • Devi Sacchetto, Storie di vita nel caleidoscopio del lavoro
  • Alvise Sbraccia, Migranti, processi di criminalizzazione e approccio biografico
  • Sergio Bologna, Una ricerca sulle nuove forme di lavoro intellettuale
  • Glauco Sanga, Antropologia e oralità
  • Giovanni Dore, La memoria coloniale italiana. Itinerari di ricerca, questioni metodologiche e responsabilità etiche
  • Alberto Prandi, 1973: un saggio di etnografia visiva
  • Ignazio Macchiarella, Perché (e quindi come) fare ricerca di etnomusicologia
  • Piero Cavallari, Metodologie di acquisizione e conservazione delle fonti sonore di storia orale
  • Francesco Baldi, Il progetto ‘Archivio Digitale’ della Discoteca di Stato – Museo dell’Audiovisivo
  • Antonella Fischetti, Creazione e gestione della fonte orale

La pubblicazione sarà pronta nelle prime settimane del 2008, il costo dovrebbe aggirarsi intorno ai 20 euro.
La vendita verrà fatta tramite spedizioni contrassegno.
Si raccolgono prenotazioni per email.

Porte aperte

Domenica 20 gennaio 2008 l’Istituto sarà aperto al pubblico dalle 15:00 alle 19:00 perchè aderisce al progetto "Porte aperte: i musei per i Beni Immateriali" promossa dal Ministero dei Beni e della Attività Culturali.
Nel corso della giornata sarà possibile visitare la sede dell’Istituto e alle 16:00 sarà proiettato il film "I Dischi del Sole" di Luca Pastore, presentato da Stefano Arrighetti.
E’ gradita la conferma di presenza per mail o telefono.

In memoria di Peppino Marotto

«Sono nato ad Orgosolo da genitori poveri, quarto dei sette figli di un boscaiolo e di una casalinga figlia di pastori». Così scrive Peppino Marotto nella breve autobiografia che introduce le sue «Cantones politicas sardas». Era l’inverno del 1925 quando l’arco della vita di Marotto si apriva; ieri mattina, poco prima delle 10, è stato chiuso da cinque colpi di pistola, sparati alle spalle mentre lui entrava nell’edicola dove tutti i giorni comperava i quotidiani. Il killer è sparito prima che arrivassero carabinieri e polizia. Nessuno lo ha visto. Sul movente il buio è, per il momento, assoluto.
Era un comunista, Peppino Marotto. Lo è stato per tutta la vita in un posto dove avere la tessera del Pci e quella della Cgil era una faccenda complicata, rischiosa. La sua storia lo dimostra. Con gli studi Peppino non va oltre la seconda elementare. L’istruzione è un lusso che i suoi non possono concedersi. A otto anni comincia a lavorare come «anzoneddàru», pastore di agnelli, alle dipendenze di uno zio. Il suo primo vero padrone lo incontra a dieci anni, quando va a fare il servo sul Supramonte: «Lui mi dava – racconta Marotto a Giuseppe Fiori nel libro “La società del malessere” – tre pecore all’anno, più il mangiare, che era questo: “orzatu”, il pane d’orzo, e sa “frure”, il latte cagliato». Nel 1945 il servizio di leva, fuori dal cerchio dell’ovile dove il tempo resta fermo, nell’Italia devastata dalla guerra. «Ho visto i paesi completamente rasi al suolo e dappertutto, nelle campagne, donne scheletriche fasciate di stracci, con bambini sfigurati dal poco alimento. Fu allora che imparai il comunismo».
Quando Peppino rientra a casa, nel 1947, trova una Barbagia ancora più povera di come l’aveva lasciata. Nella provincia di Nuoro il reddito individuale medio era di 80.000 lire all’anno contro le 164.000 della media nazionale. Miseria ed esplosioni di ribellismo individuale, violento quanto sterile: nessuna vera prospettiva di cambiare davvero le cose. Questo erano Orgosolo e l’intera Sardegna centrale in quegli anni. Insieme ad un gruppo di pastori e di contadini senza terra, nel 1948 Marotto dà vita ad una cooperativa, «La popolare». Chiedono, lui e gli altri, che venga loro concessa una piccola parte dei tanti latifondi incolti. Ma senza esito. Si inventano allora, nel marzo 1950, uno sciopero alla rovescia: costruire una strada che colleghi il paese ai pascoli, opera utile che nessun potere pubblico riesce a realizzare. Per qualche giorno li lasciano lavorare. Poi arrivano i carabinieri e li costringono a smettere. Poco dopo, a settembre, ad Orgosolo viene ucciso un uomo, Nicola Taras. La polizia mette sotto assedio il paese e arresta decine di persone. Marotto viene prima fermato e poi spedito al confino a Ustica. L’accusa, generica, è di favoreggiamento degli assassini di Taras. «Arrivati a Ustica – racconta – ci mettono a gruppi in cameroni che erano scuderie per cavalli. Fossa di insetti, chiamavano il nostro». Torna a casa nel settembre del 1952. Comincia il suo impegno nella Cgil, in poco tempo diventa segretario della Camera del lavoro di Orgosolo. Organizza i disoccupati e prova a dare una coscienza sindacale a giovani abituati ad avere come unico punto di riferimento il codice di guerra che regola i rapporti tra i clan familiari, il codice che in Barbagia prevede, come supremo elemento regolatore, la vendetta violenta, dallo sgarettamento del bestiame sino all’omicidio. È un’impresa quasi disperata. In quegli anni il paese è insanguinato da una delle più spietate faide che la Sardegna abbia mai conosciuto. «Ogni famiglia – ricorda Marotto – aveva almeno due o tre omicidi ricevuti o inflitti».
Il clima è pesantissimo. Alla fine del 1953 viene ucciso un carabiniere e Marotto, temendo di essere rispedito senza colpe a Ustica, si dà alla latitanza. Si costituisce dopo alcuni mesi, viene spedito al confino in Molise e poche settimane dopo viene arrestato, accusato di un omicidio e di una rapina avvenuti in Barbagia durante la sua latitanza. Inutili le sue proteste d’innocenza. Re-sta in galera, prima a Nuoro, poi ad Orvieto e a Spoleto, sino al 1962. Quando esce, va a vivere in Lombardia, dove lavora come stalliere. Alla fine del 1966 ritorna in Sardegna: «Dovevo farlo: mi sembrava di essere diviso in due. La società del benessere assicura il necessario, non dico di no, e ai più fortunati anche il superfluo. Solo non ci si trova spontaneità, rapporti umani sinceri, l’amicizia capace di sacrificio. A Orgosolo è un’altra cosa. Senti una voce in campagna e subito capisci. Vedi in paese una luce accendersi e di quella casa immagini tutto. Esistiamo insieme, ecco la diversità».
Di nuovo a casa, Peppino Marotto continua scommettere sul riscatto di una terra difficile. Ancora sindacato, la tessera del Pci e, insieme, la scrittura, le raccolte di poesie in lingua sarda, soprattutto «Su pianeta ’e Supramonte» e «Cantadas in sardu». Di cui l’antropologo Alberto Maria Cirese scrive: «La specificità della condizione sarda, senza perdersi, s’incorpora nell’unità di ideali più vasti, nella grande unità della cultura del movimento operaio».
«Esistiamo insieme». Questo era l’orizzonte di vita al quale Peppino Marotto ha sempre guardato. Cinque colpi di pistola lo hanno cancellato. Almeno per lui; perché ad Orgosolo il gusto di sfidare il mondo così com’è fatto (male) Peppino lo ha contagiato a tanti.

Costantino Cossu, «il Manifesto», 30/12/2007, p. 7

«Peppino Marotto ucciso nel suo paese Orgosolo», così mi arriva la notizia.
Peppino Marotto era un poeta, quando in un paese si uccidono i poeti vuol dire che quel paese è malato. L’Italia è sensibilmente malata dal 1975, quando fu ucciso Pasolini.
Peppino era un poeta popolare, cantava le sue rime in ottava con il suo coro, non era un uomo qualsiasi, per me Peppino era un profeta, era un grande. La sua vita dedicata all’impegno politico, ancora ieri, ottantenne, saliva ogni giorno alla Camera del Lavoro di Orgosolo che possiamo proprio definire «la sua camera del Lavoro» e la teneva aperta, lì, tutto solo, per essere disponibile ai lavoratori che avessero qualche problema da esporgli, qualche denuncia da fare al proprio sindacato, qualche padrone prepotente e inadempiente. Peppino non si era mai tirato indietro di fronte alle lotte per la sua terra, per il lavoro, cantava la vita di Gramsci e al popolo insegnava i sentimenti. «Peppino non era il cantore di una Sardegna passata, ha sempre cantato per la Sardegna del futuro» così mi dice Ivan Della Mea anche lui distrutto dalla notizia che ci è appena giunta, e per questo mondo del futuro era abituato Peppino, come tanti altri, a lottare. Insegnava ai giovani attraverso la sua poesia come si devono amare i grandi, come si deve riconoscere il valore di chi combatte per una vita giusta, contro la sopraffazione dell’uomo sull’uomo. Peppino non è mai invecchiato nella sua testa, oggi seguiva i fatti politici del nostro paese e parlava dello stato del mondo con termini illuminati, fedeli al suo credo di vecchio comunista, che aveva subito riconosciuto l’importanza della nascita della democrazia in Italia, della costruzione del paese fatta a partire dalla Costituzione.
L’importanza del sacrosanto valore della Resistenza in cui abbiamo tutti creduto educati proprio da persone come Peppino e gli altri grandi combattenti che stanno scomparendo purtroppo uno ad uno nel nostro malato paese. Malato perché è malata la vita dappertutto, per come nel mondo hanno vinto gli interessi delle multinazionali e quindi per come ha vinto, dovunque, lo sfacciato egoismo del singolo contro l’interesse dell’umanità . Peppino Marotto ha sempre lottato, l’hanno mandato al confino durante il fascismo e in carcere durante il governo di Scelba, sempre perché proclamava il suo credo e la sua ferma volontà nell’impedire che nel paese accadesse quello che accade adesso. La disgregazione degli ideali naturali dell’uomo, il lento progredire del male cioè dell’irreale contro il bene cioè la realtà. Con Peppino ho passato momenti magnifici, e mi ha insegnato sempre tanto. Abbiamo viaggiato e cantato insieme in Europa, era un fratello maggiore per me e un grande Maestro.
Quando Peppino tornava verso casa, la sera, anche adesso, dopo una brutta bronchite che lo lasciava senza respiro, dalla sua Camera del Lavoro, lui ogni volta si fermava prima della salita verso casa dove un terrazzino, sorta di piccolo promontorio, permette di guardare tutta la valle su Ogliena, si fermava lì per ammirare la sua valle. Peppino aveva ottantadue anni, ottantadue anni di una vita militante, ricca di tanta sapienza e generosità, ma chi ha potuto anche solo pensare di uccidere un uomo simile? Ma dove stiamo vivendo? Ma che paese è l’Italia?
I giovani non conoscono Peppino Marotto, da ora in poi sarà nostro dovere, di noi vecchi, dovere morale di farlo conoscere.

Giovanna Marini, «il Manifesto», 30/12/2007, p. 7