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Razzisti cioè cattivi

Da il Manifesto, 24 ottobre 2009

Razzisti cioè cattivi
di Alessandro Portelli

È proprio vero che siamo un paese di poeti santi e navigatori. Solo in un paese di geni assoluti poteva essere concepita l’idea, scaturita dalla fervida immaginazione di un paese del bresciano, di lanciare di qui a Natale una campagna di pulizia etnica e chiamarla «White Christmas». La trovo un’idea entusiasmante. In primo luogo, perché spazza via tutte le menzogne mielate di quando ci raccontavano che a Natale siamo tutti più buoni: prendere spunto dal Natale per diventare più cattivi, e farlo in nome delle nostre radici cristiane mi pare un’operazione liberatoria di verità assolutamente ammirevole. Altro che cultura laica.
Qualche anno fa, quando il mio quartiere scese in piazza per impedire il trasferimento in zona di qualche famiglia rom, una compagna disse: «Non è razzismo, è cattiveria». Scrissi allora, e mi ripeto: non distinguerei fra le due cose (il razzismo è cattiveria), ma trovo giusta questa parola, «cattiveria», così elementare da essere caduta in disuso, perché qui è proprio l’elementarmente umano che è in gioco.
D’altra parte, un esimio leghista ministro della repubblica aveva già proclamato che bisognava essere cattivi con gli esseri umani non autorizzati. Disciplinatamente, fior di istituzioni democratiche eseguono: sbattono fuori dalle baracche i rom a via Rubattino a Milano e al Casilino a Roma e i marocchini braccianti in Campania, incitano i probi cittadini dei villaggi lombardi a denunciare i vicini senza documenti, premiano con civica medaglia intitolata a Sant’Ambrogio gli sgherri addetti ai rastrellamenti dei senza diritti. Fini dice che sono stronzi: no, non sono solo stronzi, sono malvagi.
Su un piano più leggero, trovo altrettanto geniale proclamare che l’operazione si fa in nome dell’incontaminata cultura lombarda e bresciana – e chiamarla con un nome inglese, per di più orecchiato da una canzone e un film americano. Non si potrebbe trovare un modo migliore per prendere in giro tutta la mitologia lombarda delle radici e della purezza culturale. Non è solo una bella presa in giro di quelli che mettono nomi lumbard sui cartelli all’ingresso dei paesi. Ma è anche un modo per ricordarci che non esiste cultura più paesana, più subalterna e più provinciale di quella che finge un cosmopolitismo d’accatto.
E infine, la trovata dell’inglese è una spietata denuncia dell’ipocrisia razzista. Dire «bianco Natale» significava mettere troppo in evidenza il colore della pelle, perciò lo diciamo con una strizzata d’occhio – dire le cose in inglese, non solo in questo caso ma più in generale ormai, significa dirle ma non dirle, è la nuova forma della semantica dell’eufemismo. E poi, «Christmas» invece di Natale: e hanno ragione, il nostro tradizionale Natale è sempre più sovrastato dall’americano Christmas, lasciamo perdere il misticismo e corriamo a fare shopping.
Aveva proprio ragione la mia amica appalachiana che diceva, «noi poveri di montagna non sognavamo un bianco Natale. Se nevicava, era più che altro un incubo». Io non so che Natale sognino i senza documenti del bresciano, dopo questo bell’esempio di cristianesimo. La cosa che immagino è che, cacciati dal villaggio, gli stranieri sbattuti fuori di casa andranno a dormire in una stalla e faranno nascere i loro clandestini bambini in qualche mangiatoia.

INNSE, noi sul carroponte

Da A rivista
anarchica
, anno
39 n. 347, ottobre
2009

Noi sul carroponte
intervista a Massimo Merlo di Cristina Vercellone


La lotta dei lavoratori della Innse di Milano è stata al centro dell’attenzione per la determinazione dei 49 lavoratori che non hanno accettato lo smantellamento dell’impresa. Ora che la lotta è finita con la vittoria dei lavoratori ne parliamo con uno dei cinque rimasti per giorni sul carroponte. Che racconta tutta la storia e tira qualche conclusione. Da libertario qual è.

Hanno autogestito la fabbrica per 3 mesi, lavorando senza padrone. Hanno bloccato i camion che volevano portare via i macchinari. Sono saliti sul carroponte nella fabbrica sorvegliata da 400 uomini tra agenti di polizia, carabinieri e guardia di finanza. Hanno smantellato l’idea di proprietà privata, senza che nessuno se ne accorgesse, e dimostrato che la lotta operaia può portare a dei risultati. Gli operai della Innse di Milano Lambrate, che hanno realizzato parti dell’acceleratore lineare del Cern di Ginevra e il ponte sospeso di Copenaghen, ce l’hanno fatta. Anche se questo, dicono loro, è solo l’inizio.
L’ex Innocenti, madrina della Lambretta, dopo oltre 14 mesi di resistenza da parte degli operai, è stata ceduta al gruppo Camozzi di Brescia. Massimo Merlo, esponente della Rsu, salito sul carroponte il 4 agosto scorso, insieme ad altri 4 compagni di lavoro e al rappresentante sindacale della Fiom, per gli ultimi 8 giorni di lotta, non ha nessuna pretesa trionfalista.

A chi vi siete ispirati per questa lotta?

La nostra è una lotta operaia e basta. Non abbiamo preso esempio da nessuno. Dopo trent’anni di lavoro insieme, siamo diventati un gruppo unito, operai che alzano la testa.

Avevate già fatto lotte come questa?

Sì, per esempio nell’agosto del ‘99 quando l’allora amministrazione, la tedesca Sms Demag, aveva annunciato che avrebbe chiuso l’attività. Avevamo bloccato la portineria, non facevamo più uscire i pezzi, ottenendo così, anche allora, la vendita dell’officina.

Qual è la vostra forza?

Nessuno di noi è stato costretto a lottare. Ognuno ha scelto di farlo.

Cos’è che vi ha spinti ad agire?

Erano le 16 del 31 maggio 2008. Un operaio ha ricevuto, prima degli altri compagni, un telegramma inviato dal padrone, il torinese Silvano Genta. Diceva, senza che le Rsu ne fossero a conoscenza, che apriva la procedura di mobilità. È scattato il giro di telefonate tra gli operai. Siamo corsi subito davanti alla fabbrica. Era pieno di agenti della polizia e di carabinieri. Dentro c’erano venti vigilantes pagati da Genta. Allora abbiamo deciso di entrare; abbiamo dichiarato l’assemblea permanente e mandato via i vigilantes. Da allora siamo stati dentro, giorno e notte, sempre in fabbrica.

Eravate in assemblea permanente.

Sì, fino a quando il 3 giugno abbiamo deciso di continuare a lavorare. Avevamo delle commesse in officina per altri 6 mesi. Così siamo andati avanti a gestire la fabbrica, da soli. Genta ha dato la disdetta per gas e luce, ma stavamo lì a vigilare, giorno e notte e quando i tecnici, mandati dalle società di gestione, venivano con l’obiettivo di toglierci il metano e la corrente riuscivamo a mandarli via. È stato interrotto anche l’appalto per la gestione della mensa, allora ci siamo organizzati da soli per pulire e cucinare. Di giorno lavoravamo e di notte presidiavamo. Ognuno segnava sul tabellone il proprio turno per la notte, il sabato e la domenica. Si giustificavano regolarmente i ritardi, si concordavano i permessi e le ferie.


“Eravamo arrabbiati”

Fino a quando siete andati avanti in autogestione?

Fino al 17 settembre quando, alle 5 della mattina, è arrivata la polizia: con una sentenza del giudice la fabbrica è stata messa sotto sequestro e gli operai buttati fuori. Eravamo nel pieno dell’attività produttiva. Noi però non ci siamo arresi e abbiamo continuato a presidiare.

Avete perso anche un compagno?

Sì, Giuseppe. A luglio, era appena smontato dal turno di notte, gli è venuto un infarto.

Genta in questi mesi cosa faceva?

Quando il 5 dicembre la fabbrica è stata dissequestrata, ha introdotto i suoi vigilantes con le telecamere e poi, a più riprese, ha cercato di entrare in fabbrica per portarsi via le macchine, ma abbiamo sempre fatto resistenza e lui è sempre stato costretto ad andarsene.

Ma la fabbrica era in crisi?

No, l’ho già detto. Andava bene, avevamo commesse per altri 6 mesi. La Innse non è figlia della crisi.

Allora perché Genta voleva smantellare tutto?

Perché ha acquistato la fabbrica in amministrazione straordinaria a 700 mila euro e rivendendo le macchine ci voleva guadagnare.

C’è qualcuno che ha capito che volevate solo rivendicare il vostro diritto costituzionale a lavorare e vi ha sostenuto?

Siamo andati dappertutto, in provincia, in regione, al ministero, ma nessuno delle istituzioni si è mosso. Erano solidali a parole, ma non nei fatti. I primi che si sono fatti avanti, a giugno del 2008, sono stati quelli dell’Associazione per la liberazione degli operai, l’Aslo (ci hanno dato 2 mila euro per la gestione della mensa), poi il centro sociale Baraonda e la Panetteria occupata di via Conte rosso. Anche le officine di Bellinzona sono state solidali. (Loro avevano occupato le officine dal 7 marzo al 7 aprile e il 15 agosto ci hanno invitati al festival di Locarno, alla presentazione di un documentario che raccontava la loro vicenda. In quell’occasione abbiamo potuto raccontare la nostra storia. All’inizio, infatti, eravamo più conosciuti all’estero che in Italia). La Fiom, dopo 2 mesi, ci ha dato 300 euro. Alla provincia, invece, che aveva promesso di aiutarci, abbiamo dovuto consegnare gli scontrini della spesa: prima che ce li rimborsasse sono passati 5 mesi. Dalla Cgil ci aspettavamo che mobilitasse le fabbriche, ma in quel momento non l’ha fatto».

Quali erano i vostri sentimenti?

Eravamo arrabbiati contro il padrone che potendo continuare l’attività voleva smantellarla e contro le istituzioni che non facevano niente per impedirglielo.

Eppure c’era un compratore, fin dall’inizio.

Sì, a cavallo tra giugno e luglio, il proprietario della Ormis di Brescia, il cliente per il quale avevamo lavorato anche nei 3 mesi di autogestione, si era fatto avanti in provincia e sui giornali, dichiarando che voleva comprare la Innse. A settembre si era presentato con noi delle Rsu, al ministero delle attività produttive, rinnovando l’interesse ad acquisire l’azienda. Il ministero ha concesso due settimane di tempo a Genta e alla Ormis per mettersi d’accordo. Ma non l’hanno fatto e nessuno si è mosso.

Genta ha dichiarato in questi giorni che lui ha rispettato gli accordi.

Non è vero. Nel 2006 la Innse faceva parte del gruppo Manzoni, il quale è entrato in crisi e ha addossato su di noi, che andavamo bene, tutti i debiti del gruppo. Ci hanno messo in liquidazione e poi in amministrazione straordinaria. A febbraio siamo stati venduti a Genta. Sapendo che era un commerciante di macchine utensili usate abbiamo fatto aggiungere una clausola nell’accordo sindacale secondo la quale lui non poteva vendere le macchine senza il consenso delle Rsu e se le avesse vendute avrebbe dovuto sostituirle con apparecchiature dello stesso livello produttivo».

Come ha gestito l’azienda in questi anni?

Secondo la legge Prodi, avendo preso la fabbrica in amministrazione straordinaria, non poteva fare licenziamenti collettivi, però rifiutava il lavoro.

E come facevate?

Per fortuna c’era il direttore di produzione che riusciva a procurarlo. Genta ne faceva di tutti i colori: faceva persino entrare ed uscire i pezzi, che venivano lavorati, in conto visione. Abbiamo tutte le bolle e tutte le prove.


L’importanza dell’unità

Vi aspettavate di essere così uniti tra voi?

Beh, un po’ sì, perché se si decide di continuare a lavorare senza padrone, vuol dire che gli intenti sono gli stessi. È stato spontaneo per noi continuare a produrre e a presidiare. Sapevamo che senza macchinari non avremmo mai più lavorato. Ci sembrava un delitto e un’ingiustizia chiudere una ditta che lavorava, con macchine in perfette condizioni. Salvando il nostro posto di lavoro potevamo crearne anche altri. La Ormis voleva portare i dipendenti a 150 perché il lavoro c’era. Potevano essere assunti anche dei giovani.

C’era di mezzo anche la proprietaria dell’area l’Aedes, sulla quale sorgono i capannoni.

Sì. Il Piano di riqualificazione urbana prevedeva che fino a quando ci fosse stata la Innse l’area sarebbe rimasta industriale, poi sarebbe arrivato un parco. L’Aedes era in combutta con Genta perché smantellasse l’azienda. Genta non gli ha mai pagato l’affitto. Ad aprile del 2009 Aedes ha cambiato proprietario e i giochi sono mutati. Aedes si è resa disponibile ad affittare e vendere i capannoni e ha fatto causa a Genta per i danni arrecati e l’affitto non pagato. Adesso, con l’accordo di martedì 11 agosto, che ci ha convinti a scendere dal carroponte, Aedes ha deciso di ritirare la causa.

Cosa avete dimostrato in questi mesi?

Che gli operai devono unirsi, non accettare mobilità e cassa integrazione standosene a casa propria, perché a quel punto in fabbrica non rientreranno più.

Ma tu sei impiegato?

Sono stato assunto come operaio, poi sono diventato impiegato, ma con la testa sono rimasto operaio. Tutte le lotte sono sempre state portate avanti dagli operai, mentre gli impiegati sono sempre stati una palla al piede. Sono gli operai che devono cambiare la società.

Che idee politiche hai? Come ti definisci?

Non mi definisco, sono libertario.

In questi mesi vi siete rivolti ai politici?

Non abbiamo mai voluto che entrassero al presidio e per 14 mesi, comunque, non hanno fatto niente. Mentre eravamo sulla gru, però, ci dicevano che il presidio si era trasformato in una passerella per loro.

Alla fine però sono intervenuti.

Sì, ma prima non hanno mai fatto niente.

Ma Formigoni non si è visto

Cos’è che vi ha fatti decidere di salire sul carroponte?

Domenica mattina ero smontato, alle 6.30, dal turno di notte. Sono arrivato a casa, a Lodi, intorno alle 8 è arrivata la telefonata di un compagno che mi avvisava che sul posto erano arrivati poliziotti e carabinieri. Abbiamo capito che stava succedendo qualcosa. Siamo andati tutti davanti alla fabbrica: ci stavano smantellando i macchinari. Le forze dell’ordine però erano ingenti, non potevamo fare niente.

Allora?

Abbiamo chiesto un incontro con il governatore Roberto Formigoni per il giorno dopo. Ci hanno lasciati dalle 9 alle 18, in un angolo del Pirellone, senza bere né mangiare, ad aspettarlo, ma lui non si è fatto trovare. Allora alle 18.30 siamo andati in prefettura. Lì ci hanno detto che non c’era niente da fare: se non si presentava un compratore (noi sapevamo che c’era) Genta aveva il diritto a smantellare i suoi macchinari. Allora siamo tornati al presidio e alle 22.30 abbiamo deciso che il giorno dopo saremmo entrati. Non potevamo più aspettare.

Perché solo in cinque?

Non potevamo sfondare, gli agenti erano più di 400. Siamo andati io ed Enzo delle Rsu, con Fabio e Luigi che fanno parte della Rsu allargata, poi abbiamo chiesto a Roberto, il rappresentante della Fiom di entrare con noi e lui ha detto subito di sì.

Entrare è stato facile?

Oltre agli agenti, c’erano 20 operai dentro che smontavano le macchine. Noi però conosciamo la fabbrica come le nostre tasche e siamo entrati. Hanno detto che abbiamo rotto un vetro per farlo, ma non è vero, non romperemo mai niente della nostra fabbrica, noi.

Sapevate già che sareste saliti sul carroponte?

No, l’abbiamo deciso mentre entravamo, era l’unico posto difendibile. Per farci scendere avrebbero dovuto venirci a prendere.
Non avrebbero mai rischiato. Quando siamo arrivati in cima, gli operai che smontavano sono stati allontanati, per ragioni di sicurezza.
Per quanto ci riguarda, saremmo scesi con le nostre gambe solo a fronte della rassicurazione che le macchine non sarebbero più state smontate e si sarebbe aperta una trattativa.
La nostra forza sono stati i compagni fuori dai cancelli e tutti quelli che sono arrivati a solidarizzare. Se non ci fossero stati loro la nostra presenza sulle gru sarebbe servita a poco.

Vi aspettavate una risonanza così?

No, anche se, dopo anni di vicende sindacali in Italia, alla Innse, per la prima volta, non sono state chieste ricollocazioni o integrazioni al reddito. Abbiamo lottato per continuare a lavorare.
Massimo Merlo appena sceso dal carroponte


In maniera libertaria

La battaglia è finita?

Affatto. Siamo riusciti a non farci smontare i macchinari, ma da settembre iniziano le trattative sindacali per stabilire i carichi di lavoro e il rientro dei 49 operai. Quello che penso io però è che, anche se avessimo perso questa battaglia, per me sarebbe stata comunque una vittoria. Abbiamo dimostrato che si può produrre senza un padrone. Qualcuno avrebbe potuto studiare la nostra lotta, vedere i nostri sbagli e migliorarla per raggiungere gli obiettivi desiderati.

Poteva finire prima?

Sì, se al momento in cui si era presentato il primo compratore, nell’ottobre 2008, Genta fosse stato messo in un angolo, ma nessuno, neanche il ministero per lo sviluppo economico, l’ha fatto.

Sono stati duri questi 14 mesi?

Sì, anche tra noi non sono state tutte rose e fiori, però persone di idee politiche diverse si sono messe insieme, senza cambiarle. È come se avessimo vissuto quest’anno in maniera libertaria.

Tra voi c’è anche gente di centro destra?

Sì, c’è.

Perché se l’autogestione ha funzionato così bene, non avete voluto continuare su questa strada?

In Italia non siamo ancora pronti. È troppo complesso, i ruoli devono girare, anche l’operaio deve fare l’amministratore delegato. Devi rispettare le date di scadenza di consegna del lavoro. In una società libertaria, dove non si lavora per il profitto, è possibile, altrimenti no. Da noi ha funzionato perché è durata poco e i clienti non ci hanno assillato.

Sarete un esempio per gli altri?

Non vogliamo essere un esempio. Non è che salendo da qualche parte gli operai risolvano i loro problemi. Gli operai devono svegliarsi, unirsi e trovare la loro specifica forma di lotta. Devono stare davanti alle fabbriche, perché se i macchinari vengono espropriati le fabbriche diventano scatole vuote.

A voi hanno proposto ammortizzatori sociali?

Non abbiamo firmato, con la Fiom, la mobilità. Non abbiamo mai chiesto il ricollocamento, anche se la regione e la provincia ce l’hanno proposto mentre eravamo sulla gru.

A proposito, non abbiamo ancora parlato di questi 8 giorni sulle lamiere striate del carroponte, a 20 metri di altezza.

Di questo si sa già tutto dai giornali. Siamo stati a ridosso del tetto del capannone, con un caldo atroce, le finestre senza spiragli imbottite con la lana di vetro e le zanzare che ci pungevano. Per non parlare dei giornali che usavamo al posto del materasso, di come dovevamo lavarci via il grasso e fare i nostri bisogni. Poi Genta ha fatto togliere la corrente e non potevamo più caricare i telefoni. Stavamo svegli a controllare che non succedesse nulla di strano, ma era la polizia che ci controllava attraverso dei microfoni disseminati nel capannone. Meno male che c’erano i nostri compagni sotto e le compagne, che ci sostenevano.

Qual è la cosa che ti ha divertito di più?

Abbiamo messo in discussione il valore della proprietà privata, senza che nessuno se ne accorgesse. Genta era il proprietario dei macchinari e quindi, secondo questa logica, era giusto che li vendesse e facesse quello che voleva. La logica nostra era diversa: i macchinari erano stati pagati con il nostro lavoro e quindi erano più nostri che suoi.


Cristina Vercellone

Caterina raccattacanzoni

Caterina raccattacanzoni

Comune di Siena
Università degli Studi di Firenze
Istituto Ernesto de Martino
COOP Centro Italia – Sezione Soci di Siena

presentano

Caterina raccattacanzoni
Ragionando e cantando di Caterina Bueno

conferenza-spettacolo

Mercoledì 11 novembre 2009
Siena, Teatro dei Rozzi, ore 21
Ingresso libero

Partecipano Albertro Balia, Giovanni Bartolomei, Jamie Marie Lazzara, Pietro Clemente, Dal Nostro Canto, La Tazza d’Arianna, Marco Rovelli, Enrico Rustici, Valentino Santagati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bastian contrario e non solo. Ricordiamo Ivan Della Mea

 

Bastian contrario… e non solo

Ricordiamo Ivan Della Mea

 

16 e 17 ottobre 2009
Istituto Ernesto de Martino
Villa San Lorenzo al Prato e Giardini Viale Ariosto
Sesto Fiorentino (Firenze)

 

Bastian contrario e non solo - VolantinoP R O G R A M M A

 

=== Venerdì 16 ottobre ===

Ore 17.00
Tavola Rotonda
Maria Luisa Betri (Istituto Ernesto de Martino)
Franco Cazzola (Università di Firenze)
Fausto Bertinotti
Paolo Beni (Presidente nazionale ARCI)
Annamaria Rivera (Università di Bari)
Silvano Panichi (Laboratorio Nove)
Gualtiero Bertelli (Cantautore)
Gianni Gianassi (Sindaco di Sesto Fiorentino)
Toni Jop (l’Unità)

Ore 21.00
Concerto
Con Rudi Assuntino, Moni Ovadia, Alessio Noferini, Alessio Lega, Marco Rovelli, Gualtiero Bertelli, Sandra e Mimmo Boninelli, Paolo Ciarchi, Claudio Cormio, Riccardo Luppi, Banda K100, Paolino Dalla Porta, Fratelli Rossi, Alberto Cesa e CantoVivo, Renato Franchi e l’orchestra del suonatore Jones, Giuseppe “Spedino” Moffa, Marino e Sandro Severini (Gang), Stefano “Cisco” Bellotti.

 

=== Sabato 17 ottobre ===

Ore 16.30
Proiezione del film “Tepepa”
di Giulio Petroni, 1968. Con Tomas Milian e Orson Welles. Sceneggiatura di Franco Solinas e Ivan Della Mea.

A seguire
“Tepepa. Viva la rivoluzione. Intervista a Ivan Della Mea su Franco Solinas”
A cura degli Archivi della Resistenza – Circolo Edoardo Bassignani. Regia di Andrea Castagna, 2007.

Ore 19.30
Cena popolare a buffet

Ore 21.00
Concerto
Con Paolo Ciarchi, Claudio Cormio, Davide Giromini, E’Zezi, Daniele Sepe, Massimo Ferrante, Buzz On, Tetes de Bois, Claudio Lolli e Paolo Capodacqua, Banda degli ottoni a scoppio, Suonatori Terra Terra, Bianca Giovannini, Sandra Boninelli, Nuovo Canzoniere Bresciano, Piero Brega e Orietta Orengo, Sara Modigliani, I Giorni Cantati di Calvatone a Piadena, un contributo video di Marco Paolini, Mattia Ringozzi.

 

Organizzato dall’Istituto Ernesto de Martino con il Comune di Sesto Fiorentino e la Regione Toscana; con la collaborazione degli Archivi della Resistenza – Circolo Edoardo Bassignani; con il patrocinio della Provincia di Firenze; con il contributo di CGIL Toscana.

Sponsor: Libreria Rinascita (Sesto Fiorentino), CISPEL Toscana, Vini Le Botti (Sesto Fiorentino)

Corazone – 25/26/27 settembre a Bologna

L’HARD CORO DE’ MARCHI/SCUOLA POPOLARE DI MUSICA IVAN ILLICH
in collaborazione con ASS. PRIMO MORONI e CIRCOLO ANARCHICO CAMILLO BERNERI presentano:

CORAZONE: Internazionale del canto sociale - II edizione - Tre giorni dedicati a Ivan Della Mea

PROGRAMMA

Venerdì 25 settembre
Ore 20: proiezione de I Dischi Del Sole, documentario di Luca Pastore (2004).
A seguire musica e parole per ricordare Ivan Della Mea con PAOLO CIARCHI (musicista), STEFANO ARRIGHETTI (presidente dell’Istituto Ernesto de Martino), CLAUDIO CORMIO (musicista/videomaker), il CANZONIERE BRESCIANO e altri.
Presso la Scuola Popolare di Musica Ivan Illich, via Giuriolo 7, Bologna.

Sabato 26 settembre
Dalle 18 in poi "La piccola ragione d’allegria": grande festa conviviale nel parco con i cori SI BÉMOL ET 14 DEMIS (Parigi), LA BARRICADE (Saint Étienne), COLOUR DE MAI (Marsiglia), CORO DOMINGUERO "QUE NOS QUITEN LO CANTAO" (Siviglia), LE VOCI DI MEZZO (Milano), CANZONIERE BRESCIANO, CORO DI MICENE (Milano), LE CENCE ALLEGRE (Modena), CANTATORRI DI CASELLINZA, HARD CORO DE’ MARCHI (Bologna).
Presso la Scuola Popolare di Musica Ivan Illich, via Giuriolo 7, Bologna.

Domenica 27 settembre
Dalle 15 "Il canto del lavoro", con CORO DEI MINATORI DEL MONTE AMIATA, MONDINE DI BENTIVOGLIO, MONDINE DI PORPORANA, LEGA DI CULTURA DI PIADENA.
Presso La Casona, Ponticelli di Malalbergo.

INFO
Segreteria Scuola Popolare di Musica Ivan Illich: 051.357753 (dalle 17.30 alle 20.30)

Ricordando Ivan al Circolo Gianni Bosio

CIRCOLO GIANNI BOSIO
CASA DELLA MEMORIA E DELLA STORIA

Via San Francesco di Sales 4, Roma
Giovedì 24 settembre – ore 20.30

RICORDANDO IVAN

Serata dedicata a IVAN DELLA MEA, scomparso nel giugno di quest’anno, per ricordarne l’incredibile personalità e l’instancabile impegno come intellettuale, cantautore, scrittore, poeta, giornalista, compagno appassionato.
In programma la proiezione del film "A quell’omm" (2007), di Isabella Ciarchi, e di sequenze da lui scritte per il film "Tepepa" (1968); letture di poesie, articoli, brani dai suoi libri e in particolare dalla recentissima "quasi" biografia "Se la vita ti dà uno schiaffo" (Jaca Book, 2009).
Interventi musicali di Piero Brega e Alfredo Messina.
Ingresso libero.

Info
0668135642


Quello che siamo state

Virginia Paravati, Quello che siamo state - copertinaA Villadossola (borgo dell’alto Piemonte) nella prima metà del secolo scorso esisteva la più importante fabbrica con manodopera prettamente femminile di tutto il territorio. Era uno iutificio che dava lavoro a centinaia di giovani donne sia provenienti dall’area alpina sia immigrate da altre regioni italiane. Ragazze, anche adolescenti, che tra le anguste mura di quella azienda sono cresciute e hanno costruito un’identità operaia fondata sulla dignità e il rispetto del proprio mestiere.
I ricordi del lavoro, dello stare assieme, dell’emancipazione individuale e di gruppo, delle lotte per migliori qualità di vita sono gli argomenti del libro di Virginia Paravati Quello che siamo state. Storia e memoria di donne in fabbrica. Lo iutificio di Villadossola (1900-1950).
Dalle pagine di questa avvincente storia, che si concluderà con sette mesi di occupazione della fabbrica contro la sua chiusura, emerge il rilievo della cultura femminile del lavoro industriale e del contributo fornito dalle donne di valle.
Il volume (250 pp., 23 ill.) può essere richiesto all’Assessorato alle Pari Opportunità della Provincia del Verbano Cusio Ossola tramite questo modulo.

Virginia Paravati si occupa di storia e cultura dei ceti popolari, in particolare del mondo femminile, collaborando con istituzioni pubbliche e private. Tra i suoi lavori: Aspettando la luna nuova. Dialoghi sul sapere delle donne a Ornavasso nella prima metà del Novecento, Alberti libraio editore, Verbania 2007.

Edizione promossa dalla Consigliera di Parità e dall’Assessorato alle Pari Opportunità della Provincia del Verbano Cusio Ossola.

 

 

 

 

 

 

 

 

La memoria dell’acqua

La società di mutuo soccorso Ernesto de Martino ha pubblicato il secondo volume della collana Temporale.
Il libro, che si intitola Una città. Venezia, la memoria dell’acqua raccoglie buona parte della ricerca su campo che per qualche anno ha impegnato il gruppo di ricercatori dell’associazione.

Questo il sommario:

  • Antonella De Palma, La memoria dell’acqua (Acqua; Acqua alta: prima e dopo il 1966; La Storia e le storie)
  • Chiara Lenarduzzi, Il tempo dell’ombra
  • Silvia Barbon, L’isola delle foche
  • Sandra Savogin, L’ultimo dei cuoridoro
  • Massimo Rossi, La raccolta dei vermi nella laguna di Venezia
  • Alessandra Franceschi, Mestieri di laguna (Attività produttive e lavoratori dell’isola di Burano; "Dobbiamo vivere fra l’acqua e il merletto")
  • Eva Bendinelli, Murano: lavoro femminile nell’isola del vetro
  • Alessandra Franceschi, Lavoratrici a Murano: tra modernità e tradizione
  • Donatella Davanzo, Documentazione fotografica del merletto e della lavorazone del vetro
  • Massimo Rossi, Pellestrina. Trasformazioni del territorio e mestieri le identità di un’isola
  • Marco Caligari, La memoria dell’amianto dei portuali veneziani


Dall’introduzione

I ricercatori che per lungo tempo sono stati impegnati in questo lavoro di "inchiesta" storica, sociale, e personale non hanno voluto semplicemente ricosturire eventi passati o mestieri più o meno in via di estinzione ma hanno cercato di comprendere ciò che questi eventi e questi mestieri significano oggi, di raccontare le differenze in un momento in cui quelle differenze sitenta di cancellarle e dilaga un pericoloso conformismo culturale che tutto omogeneizza.
Questo libro non è e non vuole essere un saggio storico o sociale o antropologico. Piuttosto un libro di racconti, un montaggio di impressioni soggettive su alcuni aspetti ed eventi della storia di Venezia e della sua laguna.

Il libro può essere richiesto direttamente alla Società di mutuo soccorso Ernesto de Martino qui.

Novecento contemporaneo. Studi su Lelio Basso

Segnaliamo un volume di studi su Lelio Basso in cui è presente un lavoro di ricerca di Antonio Fanelli dal titolo La cultura socialista e gli studi antropologici. Lelio Basso, Gianni Bosio e Alberto Mario Cirese:

G. Monina (a cura di), Novecento contemporaneo. Studi su Lelio Basso, Ediesse, Roma 2009, 310 pag., 16 euro

Indice del volume

  • Introduzione: Gli studi su Lelio Basso: l’interesse dei giovani, di Giancarlo Monina
  • Una democrazia impossibile. Lelio Basso e il dialogo tra socialisti e cattolici alle origini del centro-sinistra, di Tommaso Nencioni
  • La cultura socialista e gli studi antropologici. Lelio Basso, Gianni Bosio e Alberto Mario Cirese, di Antonio Fanelli
  • Lelio Basso e Wolfang Abendroth: due intellettuali a confronto, di Sergio Falcone
  • Lelio Basso e l’America Latina (1961-1978). Un percorso politico, intellettuale e umano, di Andrea Mulas
  • Laicità e ragione pubblica. Attualità del pensiero di Lelio Basso, di Claudio Corradetti
  • Giustizia penale e amnistie nel secondo dopoguerra. Lelio Basso e i Comitati di Solidarietà Democratica (1948-1959), di Michela Ponzani
  • Guida alle Fonti per lo studio dei Comitati di Solidarietà Democratica, a cura di Ilaria Romeo

Dal risvolto di copertina

Il volume raccoglie contributi orginali di ricerca e di studio dedicati al percorso intellettuale e politico di uno dei maggiori protagonisti della storia della sinistra italiana e internazionale del Novecento. Insieme e oltre ai temi e ai periodi storici trattati, il dato di originalità è rappresentato dal punto di vista degli autori: tutti appartenenti a una giovane generazione che non ha vissuto i contesti culturali e politici della biografia di Basso. Ciò ha permesso uno sguardo più libero che si confronta con maggiore forza con le domande del presente. La seconda parte del volume è dedicata all’esperienza dei Comitati di Solidarietà Democratica, dal 1948 impegnati nel patrocinio della difesa nei processi penali e civili contro i partigiani, di cui Basso fu protagonista e di cui si offre una prima importante guida archivistica.

Quarta di copertina

"Come non ho timore di confessare l’utopia del socialismo, così non ho timore di confessare l’altra utopia, la più grande e la più pericolosa, che tutti gli uomini, come è scritto nella nostra Costituzione, avranno un giorno su questa terra pari e piena dignità sociale" – Lelio Basso, 1978

Libri scaricabili/stampabili/leggibili online

Abbiamo aperto sul sito una nuova sezione, "Libri online". L’intenzione è quella di mettere via via online alcune delle pubblicazioni dell’Istituto o anche delle realtà sorelle-cugine-vicine, come abbiamo cominciato a fare con la rivista. Per ora stiamo pensando ad alcune delle uscite degli "Strumenti di lavoro", anche se non sappiamo quanto riusciremo a dar seguito all’intenzione perché gli è un lavorone. In ogni caso un primo libro è stato messo online, liberamente scaricabile-stampabile-leggibile: è La proprietaria del morto di Giuseppe Morandi. Grazie a lui e alla disponibilità di Piero Del Giudice e delle Edizioni E.